Diritti
Violenza sulle donne: non chiamiamoci vittime, non chiamateci vittime
Oggi è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. La giornata è stata istituita dalle Nazioni Unite nel 1981, viene celebrata regolarmente in Italia dal 2005 e prende spunto dall’uccisione di tre rivoluzionarie, le sorelle Mirabal, uccise nella loro battaglia contro Rafael Trujillo il 25 novembre 1960 a Santo Domingo.
I dati (dalla rilevazione ISTAT del 2006 a quelli prodotti dai Centri Donna per non subire violenza) raccontano di violenze in aumento, indipendenti da condizioni sociali, economiche, ma molto dipendenti da relazioni di intimità (l’85% delle violenze, secondo l’ISTAT, avviene tra conoscenti). Do per acquisito che la violenza nei confronti delle donne sia da condannare senza se e senza ma e che le cifre siano spaventose ed intollerabili. Non è detto, tuttavia, che la celebrazione sia la strategia migliore per portare avanti una reale battaglia che sia in grado di smuovere i nodi della questione “violenza”. Credo che in questa, come in molte altre battaglie fatte in nome dell’eguaglianza e della parità tra cittadini, sia necessario un cambio di lessico e una produzione di discorsi differenti. Senza scomodare Foucault e le sue teorizzazioni sui saperi-poteri, è evidente come le campagne per la lotta alla violenza così come attuate non siano state efficaci, o sufficientemente efficaci. La strategia politica maggiormente realizzata è stata una richiesta di giustizia e di riconoscimento della violenza sul piano del diritto, partendo dal presupposto che sia il diritto (e soprattutto il diritto penale) lo strumento più adeguato per siglare i cambiamenti di relazione tra generi.
(Campagna contro la violenza sulle donne, Benetton, 2014)
Si presuppone, quindi, che ci sia un’efficacia del meccanismo di deterrenza, e che gli inasprimenti normativi funzionino da monito sulle azioni. Questa fiducia nel diritto è piuttosto recente. I movimenti femministi per lungo tempo hanno visto il diritto come strumento di per sé maschile, e hanno sempre cercato di utilizzare la politica e la pratica collettiva come forma di produzione e promozione di tutele. Questo atteggiamento ha subito un’inflessione rispetto al fenomeno dello stupro: i movimenti, infatti, si sono piegati all’uso del diritto penale cercando protezione sia sul piano simbolico, sia su quello della deterrenza sulle pratiche di violenza, e immaginando che la condanna di un uso ritenuto come “prassi” fino a cinquant’anni fa potesse cambiare radicalmente le forme di relazione tra generi, soprattutto nella dimensione privata.
L’Italia ha impiegato 17 anni di battaglie per l’approvazione della legge 66/96 sulla violenza sessuale. Quei diciassette anni si possono riassumere nell’introduzione della querela di parte da parte della donna che ha subito violenza, scelta dibattuta che nasceva come strumento di libertà: io posso scegliere se rimettere allo Stato il racconto di quanto ho subito, e la richiesta di giustizia. In 12 anni, quel tipo di prospettiva è stata ribaltata. E’ del 2008 l’omicidio di Giovanna Reggiani. E’ da quel momento che la violenza sulle donne diventa uno dei cavalli di battaglia delle grandi campagne politiche, poiché strettamente connesso con la questione sicurezza. La violenza ritorna dallo spazio privato a quello pubblico. Si sposta il problema, non si risolve il fenomeno, ma si accentua sempre di più il ruolo invasivo dello Stato come soggetto protettore nei confronti di donne rappresentate come sempre più deboli, sempre più indifese.
Nel pacchetto sicurezza del governo Maroni (L. 125/2008; L. 49/2009) sono state inserite una serie di norme sull’inasprimento delle pene nei confronti dei reati connessi con prostituzione e forme di violenza; il ministro Carfagna ha rafforzato l’apparato penale e le condotte da perseguire con l’introduzione del reato di “atti persecutori” (art. 612-bis), infine, la recente legge 119/2013 sul femminicidio ha “ufficializzato” la presa in carico pubblica della questione della violenza sulle donne da parte dello Stato italiano, con l’introduzione della procedibilità d’ufficio nei casi di violenza sessuale, che va a sostituire la querela di parte, tanto voluta nella legge 66/96 come elemento di libertà.
Se è vero che la semantica pubblica è cambiata, e sicuramente la sostituzione di “delitto passionale” con “femminicidio” pone l’accento sulle responsabilità e sul fatto che non si muore solo per amore, credo che questa scelta di gestione emergenziale della violenza abbia spostato l’attenzione ma non cambiato la sostanza delle cose. Le donne sono sempre vittime, e necessitano della protezione: dei padri, dei fratelli, dello Stato e del diritto penale.
Non solo, ma questo tipo di politica nei confronti della violenza ne offre una rappresentazione come un fatto endemico, immutabile, che riconduce la donna alla figura di cappuccetto Rosso e della nonna, l’uomo nella parte del lupo (spesso anche travestito) e lo Stato ad interpretare il cacciatore, che arriva a risistemare le cose. Non credo che la violenza fisica sia endemica, così come non credo che lo sia l’aggressività maschile, ma credo sia il frutto di una stratificazione politica e sociale, molto più sottile e difficile da estirpare di quanto si pensi. Noi vediamo il fenomeno a valle, ma a monte le pratiche sessiste vengono costruite non solo attraverso le botte e la violenza assistita, ma, attraverso i discorsi e la legittimazione degli stessi. Quello che è stato brillantemente definito come “sessismo democratico” è, secondo me, il punto centrale della questione. Violento, indubbiamente, ma molto più feroce perché meno visibile e socialmente accettato.
Non è violenza fisica, ma è una violenza simbolica, che si traduce nell’inculcare forme, strutture mentali arbitrarie; un’operazione che plasma, in qualche modo, gli esseri umani (e i loro spiriti) e li rende poi disponibili a effetti d’imposizione fondati sulla riattivazione di queste categorie. La violenza simbolica è una sorta di violenza cognitiva, che può funzionare solo appoggiandosi sulle strutture cognitive di chi la subisce. Più propriamente, secondo Bourdieu, la violenza simbolica si esercita con la complicità di strutture cognitive che non sono consce, strutture profondamente incorporate, che – per esempio nel caso della dominazione maschile – si apprendono attraverso i processi di socializzazione dove si impara a collocarsi nel mondo sociale, a riconoscere i ruoli, le strutture linguistiche e così via.
(Campagna contro la violenza sulle donne, Benetton, 2014)
L’esempio per eccellenza di questa sottomissione alle cose del mondo sembra ritrovarsi proprio nelle pratiche, implicite ed esplicite del dominio maschile: una sorta di imposizione coercitiva di norme e di habitus e, quindi, di posizioni sociali perpetuata attraverso le vie simboliche della comunicazione e della conoscenza di cui le donne e gli uomini non percepiscono la presenza, se non in controluce.
La violenza simbolica, dunque, si esercita molto presto, a partire dalla prima infanzia.vSe anche nella vita adulta si acquisisce una posizione dominante (è il caso delle donne che raggiungono nella professione posizioni apicali), le esperienze di acculturazione nella prima infanzia restano decisive, e così l’accettazione di schemi e stilemi della violenza. Questo perché all’interno di quel microcosmo che è la famiglia ci sono già differenziazioni, c’è una divisione del lavoro e gerarchie politiche, ci sono rapporti di dominio, di dominazione simbolica. La violenza simbolica si può combattere, perché non è una battaglia distante da noi, che siamo sempre convinte che le donne e gli uomini coinvolti siano altre ed altri. Siamo tutti immersi in questi discorsi, li produciamo e li riproduciamo. E la definizione delle donne come vittime porta in sé un pezzetto di questa forma di violenza, perché sbilancia la relazione e richiede forme di protezione e di tutela.
E io non mi sento vittima. Non mi voglio sentire vittima, chiedo di poter scegliere, di poter realizzare e portare avanti le battaglie e di essere soggetto attivo, sia come donna che come membro di una collettività fatta di uomini e donne (perché sì, la battaglia non deve non può essere solo delle donne).
L’essere vittima come posizione politica mi toglie dallo stare nella relazione di potere come parte attiva, mi impone di subire (prima la violenza, poi la tutela). L’essere vittima norma una debolezza sostanziale, e rafforza l’idea di diseguaglianza e di disparità. L’essere vittima (potenziale) non mi permette di scegliere: come vestirmi, come muovermi nello spazio pubblico, ma mi richiede un decoro, un habitus della sessualità e delle condotte normato dal diritto.
Cambiare il lessico impone un percorso lunghissimo, che si costruisce attraverso l’educazione ai generi e non attraverso la domanda forcaiola e giustizialista di pene più severe e richiede una messa in discussione ed una liberazione della sessualità e delle sessualità (perché sì, anche quei modelli sono intrisi di sessismo e sono violenti e obsoleti). Cambiare il lessico richiede che gli investimenti vengano equamente ripartiti tra centri e case protette e corsi di formazione nelle scuole a partire dalla prima infanzia, perché saranno quelle giovani donne e giovani uomini a poter usare parole diverse per descrivere le relazioni, gli amori, il desiderio e i loro corpi.
Cambiare il lessico ci richiede maggior attenzione quando scriviamo, quando parliamo, quando ascoltiamo battutine e non sottolineiamo l’inadeguatezza e la debolezza del machismo.
Cambiare lessico ci esorta a non attendere, ma essere partecipi, come cittadine e cittadine, delle scelte.
Quindi, almeno oggi, a partire da oggi, non chiamiamoci vittime, non chiamateci vittime.
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