Diritti
Un fiore all’occhiello
Se condividete, vi mando un biscotto al cioccolato di Luca. Grazie. Marina
Cara Marina, condivido volentieri.
Ma prima penso che sia utile fare un breve recap degli avvenimenti recenti che ti hanno portata a scrivere le righe che rilanceremo da queste pagine.
E’ accaduto pochi giorni fa, la collega giornalista Concita De Gregorio, indignata per lo sciagurato comportamento di alcuni influencer stranieri che hanno seriamente danneggiato un’opera d’arte in provincia di Varese, ha pubblicato una dura reprimenda utilizzando dei termini di paragone che sono risultati, un po’ a tutti, fuori luogo.
A distanza di un solo giorno la De Gregorio ha ritenuto opportuno scusarsi e meglio esporre il proprio pensiero.
Nessuno qui ha intenzione di assegnare colpe e castighi alla Bernardo Gui; scagli la prima pietra chi non è mai caduto nell’errore di banalizzare e di fare accostamenti impropri. Ogni lavavetri era un “marocchino”, ogni sfaccendato un “terrone che vive sul divano”, ogni spacciatore “un albanese”. Nessuno si è mai salvato e si salva dal luogo comune. Sono cose che certamente andrebbero evitate, quando capitano bisogna avere la prontezza e l’umiltà di scusarsi, possibilmente senza ricaderci.
Messa da parte l’origine del male, rimane (e questa è la cosa più rilevante) la lettera aperta che Marina Viola ha voluto scrivere a Concita, parlando a lei affinché tutti ascoltassero.
Non sono righe facili facili, nascono dall’esperienza personale, io le leggo percependo quell’aroma che cantava De Andrè in “Volta la carta”: Madamadorè sa puzza di gatto.
Esplicite, a qualcuno daranno fastidio perché Marina non ha utilizzato giri di parole per disegnare le immagini del vissuto di Luca e suo. Non si tratta di un rimprovero (“Colgo l’occasione per salutarti e per augurarti tutto il bene”) ma sono un salutare richiamo fatto a tutti noi. Perché situazioni così impegnative possono palesarsi nella vita di ciascuno, quando meno te lo aspetti.
Vi presento Marina Viola o meglio lascio che si presenti da sola.
Non per vantarmi, ma Dario Fo disse questo di me:
“Marina Viola ha una capacità stupefacente di raccontare le cose in modo semplice e così facendo reinventandole completamente, senza mai essere ovvi, con un uso della ripetizione originale e divertente, sbarazzandosi di tutti i luoghi comuni. Questo libro è un racconto straziante: il tentativo di capire il valore di una persona quando non c’è più”.
Sono nata a Milano, ma a vent’anni mi trasferisco negli Stati Uniti per seguire Dan, un uomo di una bellezza tutta acqua e sapone. Nel New Jersey ottengo una mini laurea in Grafica, che non serve a niente perché adesso si fa tutto con il computer, e a Brooklyn College una Laurea Cum Laude in Sociologia.
Io e Dan abbiamo tre figli: Luca, con la sindrome di Down, l’autismo e una spiccata ossessione per la musica degli anni sessanta e settanta, Sofia, più bella di Haudrey Hupbern in Colazione da Tiffany, laureata in Storia dell’Arte e impiegata presso l’Art Institute of Chicago Museum e Emma, che è ancora al liceo, ma che è già pronta per diventare la prima Presidente americana.
Figli a parte, mi sono data da fare: ho collaborato con Linus, Smemoranda, Lettera43. Attualmente, collaboro con La Stampa. Ho rubriche mensili presso Scarp de Tenis, rivista di strada, Pernoiautistici con Gianluca Nicoletti, Cultweek, testata online di cultura. Ho un blog, Pensieri e Parole, seguito da molti lettori. Ho ideato, scritto e condotto con Federico Bernocchi Usa Con Cautela, un podcast sulle differenze tra l’Italia e gli Stati Uniti. (Se facciamo i bravi, ce ne fanno fare un altro).
Subentro a Marina solo per ricordare il titolo del suo primo libro pubblicato nel 2013 per i tipi di Feltrinelli “Mio padre è stato anche Beppe Viola”.
Cara Concita,
mi chiamo Marina Viola e sono la mamma di un cerebroleso che sbava. Quando poi mangia i suoi biscotti al cioccolato, devi vedere che schifo: sbava una bava marroncina che sembra merda. A proposito di merda: si caga anche addosso, come ha fatto ieri sera. Non ha mai avuto un’insegnante di sostegno perché è talmente cerebroleso che manco lo hanno accettato nelle scuole pubbliche!
Parlavo con amici, genitori di figli cerebrolesi, proprio della condizione peggiore dei nostri figli: la loro vulnerabilità. L’incapacità di far gruppo, di organizzarsi e di protestare, ma anche l’incapacità di capire di essere discriminati. Peggio ancora della bava, peggio ancora delle crisi epilettiche settimanali e della difficoltà di comunicare, i cerebrolesi, come li chiami tu, sono alla mercé di tutti, ma proprio di tutti. Non c’entrano i contesti, non c’entrano le cazzate che persone fortunatamente normo dotate ma coglione fanno, non c’entra la sensibilità di chi, come noi, ha la responsabilità di parlare a grandi gruppi. Per esempio, ho una figlia queer e fortunatamente per lei, ci sono enormi manifestazioni in tutto il mondo che espongono discriminazioni e altro. Hanno il Pride, sono riusciti ad ottenere importanti leggi a loro favore, almeno qui negli Stati Uniti (in Italia, come sai, siamo terribilmente indietro). Per Luca non è così. Tutti, compreso l’ex presidente degli Stati Uniti, dove vivo da più di trent’anni, possono permettersi di deridere la loro situazione. Tanto, come vede, a parte qualche genitore arrabbiato, non ci sono conseguenze alcune. Fino a quando si capirà che i cerebrolesi hanno, ahimè per qualcuno, un ruolo fondamentale nella società e devono essere considerati, sarà sempre così.
Il loro ruolo nella società si chiama neuro diversità. Come ogni essere umano ha diverse caratteristiche a seconda di dove è nato, della cultura ricevuta, dalle opportunità, così i cerebrolesi hanno una serie di valori diversa dai nostri, un modo differente di percepire il mondo. Per esempio, non conoscono la competitività, non sono interessati a raggiungere alcun successo economico, non hanno nessuna voglia di far parte della politica, degli opinionisti. Non rompono le palle a nessuno, se non ai propri genitori o a chi non ha nessuna voglia di includerli nel quotidiano. Eppure, ci sono. Cosa facciamo: li eliminiamo? Non diamo loro le cure necessarie così se muoiono ci togliamo anche questo peso? Li utilizziamo per descrivere degli stronzi che vogliono fare dei selfie? Dimmi tu in che modo è meglio renderli più invisibili possibili. Sono tutta orecchi.
Ma tu lo sai quanto ho desiderato che mio figlio facesse parte della schiera di chi fa le cazzate, si fa i selfie, esce con gli amici, beve troppo e posta sui social delle tette nude? Per fortuna, invece, mi è capitato di avere un figlio cerebroleso, che mi ha insegnato che i valori della vita non stanno nella carriera, nella costante produzione di idee, di plastica, di fuffa, di mine vaganti. Non ci crederai, ma mio figlio è il mio fiore all’occhiello, è la mia salvezza da una società malata, in cui tutto passa, va tutto bene, basta che venda.
Parlare del contesto è ormai superfluo, una scusa che non serve più a niente. Oggigiorno, nel 2023, non riesco a pensare ad alcun contesto in cui si possa dire la parola fro**o, ne**ro, cicc**ne, mong*****e. Non ci è più permesso, perché se non ci si arriva con l’empatia, bisogna in qualche modo arrivarci: insultare le persone perché diverse da noi, ma non per questo inferiori, non è consentito in nessun contesto. Soprattutto, aggiungo io da madre di un cerebroleso, insultare persone che non si possono neanche difendere è ancora meno accettato.
Mi scuso per lo sfogo, ma mi sono sentita in dovere di dire la mia. Chiamiamola deformazione professionale: sono anni che mi ribello, anche se ovviamente non serve a niente.
Colgo l’occasione per salutarti e per augurarti tutto il bene.
Marina Viola
(nella foto: il mio fiore all’occhiello)
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