Diritti
Umanità in rivolta
“Anche la lotta verso la cima basta a riempire
il cuore di un uomo.
Bisogna immaginare Sisifo felice”
Umanità in rivolta si chiama il romanzo di Aboubakar Soumahoro l’immigrato laureato in Sociologia. Da vent’anni è attivista socio-sindacale a difesa degli ultimi, degli invisibili e di tutte le persone dimenticate. Eletto in Parlamento, nel 2022 è stato eletto Deputato della Repubblica
Il diritto alla felicità, afferma chi è sempre stato accanto agli sfruttati, è per lui stato sempre legato alla possibilità di poter viaggiare e studiare.
Nato in Costa d’Avorio, fu mandato a studiare nella capitale, dove era ospite a casa di uno zio. Nei giorni festivi faceva il lustrascarpe per mantenersi dove fu colpito dallo sfarzo e dal lusso dei negozi. La scuola rappresentava la strada verso l’emancipazione che gli avrebbe consentito di entrare in quel mondo. La prima volta che ha sentito parlare di Europa fu quando il cugino parte da Alessandria d’Egitto per recarsi in Italia, a Foggia, a raccogliere i pomodori.
Aboubakar Soumahoro Iniziò, allora, a appassionarsi del calcio italiano, a conservare i ritagli delle riviste di moda. Quando arrivò in Italia, non conosceva la situazione politica italiana, ignorava le condizioni dei migranti, custodiva il senso di giustizia e di libertà trasmessogli dai sui genitori. Si sentiva spaesato, la prima tappa fu Aversa, un parente che vi abitava gli dette ospitalità, nell’appartamento erano in quindici e mancava la corrente. Alle cinque era consuetudine, come apprese dai compagni di casa, di recarsi alla rotonda di Melito dove qualcuno passava in cerca di braccia per lavorare, come traslocatore, muratore o bracciante. Si sceglieva dopo aver dato un’occhiata senza aver concordato né orario di lavoro, né la paga. Merci esposte al mercato delle braccia, denudati dalla propria umanità. Il giorno in cui non si trovava lavoro, si rimaneva in piedi nell’attesa, dopo essersi svegliati all’alba.
Quando si parla della pigrizia dei migranti che non hanno voglia di far niente e vorrebbero vivere alle spalle degli italiani, Aboubakar Soumahoro, pensa a tutti quelli che alla rotonda di Melito sperano di trovare un lavoro massacrante per una paga misera. In quella precarietà esistenziale non poteva permettersi nessuna offerta, poneva le sue speranze nel padrone, parola non affatto desueta, perché non è ideologico parlare di sfruttamento, è ideologico rifiutare di vedere forme di organizzazione del mercato che consentono a pochi di disporre delle vite degli altri.
L’esperienza sindacale ha fatto conoscere a Aboubakar Soumahoro contesti produttivi diversi e dinamiche di sfruttamento più complesse in cui l’assenza di rapporti di lavoro formali e con tutele sindacali è una pratica diffusa soprattutto nei settori dell’edilizia, della logistica e del lavoro domestico. Gli immigrati sono solo braccia per lavorare, ogni loro diritto è subordinato alla capacità di lavoro e alla domanda di mercato. A parità di mansione, un migrante percepisce un salario inferiore al suo collega italiano; è, inoltre più esposto a licenziamenti e a forme di ricattabilità. E se è vero che negli ultimi anni i rapporti di forza tra i lavoratori e le imprese sono cambiati e- dal Pacchetto Treu al Jobs Act- si sono introdotte forme di lavoro flessibile attraverso processi normativi a tutele crescenti, si è dato vita, però, a una generazione di lavoratori per i quali la precarietà è l’unica forma di impiego. Ciò impedisce ai lavoratori, in particolare alle donne, di avere una progettualità esistenziale.
In Italia, come in molte altre parti del mondo, il neoliberismo nell’epoca della globalizzazione ha peggiorato profondamente le condizioni materiali e immaterali dei lavoratori, soprattutto precari. E Aboubakar Soumahoro che ha lavorato nei suoi primi anni in Italia nel settore dell’edilizia, sa cosa significa rompersi un dito sul lavoro e non poter protestare anche se lo stipendio ti viene decurtato nei giorni di riposo successivi all’infortunio. Si sentiva confinato in un angolo del ring come tanti braccianti, rider, facchini, ricercatori e giornalisti precari.
Nel 2009 è invitato a Cinisi per intervenire in un dibattito pubblico dal titolo “Io non respingo”, organizzato dall’associazione Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato. Giovanni, il fratello di Peppino, gli va incontro e dalle mura della casa si può ancora respirare l’odore della lotta di Peppino assassinato il 9 Maggio 1978 dalla mafia. È lì che incontra un uomo che era riuscito a creare una perfetta coesione sociale, dove la felicità degli autoctoni e degli allogeni si coniugava in perfetta sintonia. Al centro di questo modello di accoglienza c’era l’essere umano e l’obiettivo era accompagnarlo in un percorso di rinascita, rielaborazione e riappropriazione di un progetto di vita smarrito durante un viaggio migratorio. Un modello di accoglienza che favoriva giustizia e solidarietà, creava occupazione per la comunità ospitante, altrimenti costretta a cercare lavoro altrove. Un antitesi all’impietoso e inarrestabile processo di razzializzazione di cui negli anni Aboubakar Soumahoro è stato testimone. Quando si scambiarono i numeri di telefono, Domenico Lucano si presenta e gli dice di essere il sindaco di Riace.
La razzializzazione è un concetto legato al razzismo, e all’esistenza di una categorizzazione secondo cui la razza bianca risulterebbe dominante e superiore rispetto alle altre. Le leggi razziali emanate nel 1938 dal regime fascista in Italia e la segregazione razziale del 1948 istituita dal Partito nazionale in Sudafrica sono esempi palesi di questo concetto di superiorità della razza bianca. La razzializzazione culturale sostiene l’impossibilità di una coabitazione tra persone che esprimono culture diverse e plurali. Quest’idea ha trovato legittimtà all’interno di un quadro normativo che fa riferimento alle leggi sull’immigrazione.
La prima legge fu la cosiddetta legge Martelli adottata nel 1990 dal governo “pentapartito” e contiene tre profili paradigmatici che si rifanno a concetto di “razzializzazione istituzionale” e che troviamo ancora nelle politiche migratorie.
Il primo profilo è quello del paradigma dell’invasione e dell’emergenza. Il legislatore parte dal presupposto che esiste una crisi migratoria, ossia un “invasione” che deve essere arginata al più presto adottando una serie di provvedimenti. Questo approccio preclude la possibilità di affrontare i processi e le dinamiche migratorie in una prospettiva di lungo periodo.
Il secondo profilo è quello del paradigma utilitaristico ed economico. Si ritiene che l’ingresso in Italia debba essere concesso solo a persone utili all’economia, ossia al mercato del lavoro. Lo scrittore svizzero Marx Frisch davanti all’ostilità dei suoi connazionali nei confronti dei migranti italiani, scrisse: “Volevamo braccia, sono arrivati uomini”. Gli esseri umani sono spogliati della loro dignità e bisogni e sono invece merci per l’economia svizzera.
Il terzo profilo è quello del paradigma securitario. Il legislatore delega le questioni migratorie agli apparati statali della sicurezza, affermando, subdolamente, l’esistenza di una correlazione tra immigrazione e sicurezza pubblica.
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