Diritti

Tu quoque, skinhead, fili mi!

3 Dicembre 2017

C’è qualcosa di surreale e un po’ patetico nel video dell’irruzione di un gruppo di militanti del “Fronte Veneto Skinheads” durante la riunione dell’associazione “Como Senza Frontiere” (una rete che si occupa di accoglienza dei migranti).

Mentre il capo legge il suo comunicato con tono che vorrebbe essere marziale e tenta invano di suscitare una reazione ostile, gli altri ascoltano con un certo imbarazzo, compunti nelle loro divise come un gruppo di scout; finita la scenetta escono, rinunciando a discutere con il volontario che ha risposto pacatamente alla provocazione; accettano senza reagire la richiesta di non fare rumore e l’unica ragazza del gruppo prende persino un volantino da una delle signore sedute al tavolo.

L’effetto complessivo è quello di una recita forzata, insincera, poco convinta; e proprio qui c’è l’aspetto più inquietante, nel contrasto tra l’aggressività della sceneggiatura e la fiacchezza dell’esecuzione. Dietro l’attitudine spavalda si indovinano le paure tipiche delle persone più anziane e vulnerabili; dentro i proclami xenofobi si legge  il terrore di essere “sostituiti”, “rovinati” e “distrutti”. Più che spaventare, questi ragazzi danno l’impressione di essere spaventati; più che un’intimidazione, la loro sembra una recriminazione, una rabbiosa richiesta di aiuto.

Per chi come me ha l’età per essere loro genitore, questo episodio è rivelatore di un autoinganno. Per anni ci siamo raccontati la favola della “generazione Erasmus”: abbiamo fantasticato dei nostri figli come di brillanti cosmopoliti, abituati a considerare l’Europa come la propria casa e pronti a cambiare Paese con disinvoltura per costruirsi il proprio futuro. Non ci siamo accorti che gli anni della crisi, con le difficoltà e le angosce di vedere a rischio il nostro reddito o persino il nostro lavoro, hanno avuto un impatto fortissimo su di loro, i nostri ragazzi, cresciuti con una sensazione di insicurezza e a volte di minaccia incombente.

Questa atmosfera cupa ha depresso la loro vitalità, ha seminato in loro il pessimismo e ha indotto i meno attrezzati – quelli che parlano male l’inglese, non sono mai stati all’estero o hanno un titolo di studio modesto, dunque hanno come prospettiva la disoccupazione o un lavoretto precario  – a reagire rinchiudendosi nel proprio rancore e nel vagheggiamento di una patria-mamma che soddisfi il loro bisogno di sicurezza. Tutti questi sentimenti negativi vengono legittimati e placati dalla destra identitaria, che riesce a dare loro una struttura ideologica, quella del patriottismo conservatore; offre un modo di esprimerli con i suoi slogan xenofobi contro il solito capro espiatorio, l’immigrato; suggerisce una via di riscatto con la militanza in bomber nero.

E’ spontaneo condannare il gesto intimidatorio delle teste rasate; ma sarebbe troppo comodo fermarsi a questo. Nelle loro paranoie sui “soloni dell’immigrazionismo” che complottano per sacrificare i popoli al “turbocapitalismo alienante” c’è un evidente rimprovero alla generazione precedente, la nostra, colpevole di aver costruito un mondo che questi ragazzi percepiscono come ostile e ingiusto. Alla loro rabbia occorre rispondere, come i volontari seduti al tavolo, con l’ascolto e con la serena capacità di proporre una via diversa, fatta di solidarietà, di apertura, del mettersi in gioco per gli altri. In quello scambio finale di volantini c’è la possibilità di un esito diverso: sta a noi realizzarlo e non abbandonare i nostri figli nelle mani dei professionisti dell’odio e del rancore

 

 

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