Diritti

Tortura, un libro, la realtà

7 Novembre 2019

Mi è capitato di leggere in questo fine settimana un bellissimo saggio di Donatella Di Cesare che insegna filosofia teoretica all’Università La Sapienza di Roma e scrive spesso per il Corriere della Sera.
Il saggio in questione si intitola: “Tortura”. Non è semplice presentare e parlare dell’argomento, soprattutto quando si ha a che fare con le più orribili perversioni del totalitarismo. Eppure, si dice, sia un metodo lecito usato democrazie e regimi per poter governare un paese salvo poi negarne l’esistenza.

Al di là di tutte le dissertazioni possibili sul tema, Di Cesare si interroga su quale sia la causa primigenia che giustifichi o che renda necessaria la tortura, ma ancor più sottolineato diventa il perché si applichi un certo tipo di violenza, in quale modo, sistematico od occasionale e per ottenere cosa. Le varie ragioni, ovviamente, sono da ricercare nei diversi contesti storici che ne vanno poi a fare da scenario.

Giovanni Paolo II nella sua Fides et Ratio scriveva che “la ricerca della verità, anche quando riguarda una realtà limitata del mondo o dell’uomo, non termina mai” e dalla lettura delle pagine di “Tortura” emerge come la filosofia si posizioni proprio come un termine dirimente per poter valutare meglio il concetto stesso di tortura [dal lat. tardo tortura, propr. «torcimento», der. di torquēre «torcere», part. pass. tortus]. Secondo i dati di Amnesty International, aggiornati al 2015, sono 150 i paesi che hanno ratificato la Convenzione contro la tortura ma di fatto supplizi e martirii sono ancora in uso in stati che li hanno aboliti, almeno formalmente.

Nel 2017 Donald Trump, presidente degli Stati Uniti d’America, ha ribadito che la tortura risulta essere ancora un metodo efficace per combattere il terrorismo, salvo poi fare un passo indietro e dichiarare che in realtà è soltanto uno dei metodi che danno risultati (“Waterboiarding, i feel it works“). Barack Obama qualche anno prima mise al bando, contravvenendo all’Amministrazione Bush, alcune tecniche di interrogatorio che vennero ritenute lesive dell’immagine degli USA.

Una delle tecniche di tortura più utilizzate in carceri come quella di Guantanamo (oltre ad esporre un prigioniero a luci accecanti, a musica assordante o a temperature gelide o torride, tenerlo incappucciato per mesi, isolarlo dal punto di vista acustico, costringerlo a rimanere seduto in posizioni scomode per giorni e giorni, negargli il cibo, non farlo dormire, minacciare di morte i suoi familiari, obbligarlo a rimanere nudo fronte a estranei) è il waterboarding, un supplizio che consiste nel simulare l’annegamento in modo da estorcere informazioni o confessioni altrimenti difficili da ottenere. Gli USA in passato hanno ritenuto importante anche “educare” militari alla sopportazioni di interrogatori simulati e tecniche di tortura come, per l’appunto, il waterboarding. In una inchiesta realizzata dall’Huffington Post alcuni ex militari hanno raccontato la propria esperienza con questa tecnica disumana.

“Si tratta di pochi minuti. Ma è davvero così intenso e reale – riferisce George Wolske, ex membro della marina -. Ti mettono su una tavola, in posizione supina, ti legano, non puoi muoverti. Iniziano a versarti acqua in faccia. Ti finisce nel naso, non respiri più. In quel brevissimo istante, ti rendi conto che l’unica cosa che conta davvero nella vita è l’ossigeno. Puoi fare a meno di un mucchio di cose – ma se non respiri, morirai”. “Vi sarà capitato di aspirare acqua dal naso durante una nuotata. Nel waterboarding succede incessantemente finché chi somministra la tortura non decide di smettere – racconta Jeremy Shane, ex istruttore militare per gli interrogatori -. I polmoni sono pieni di acqua, il cervello è in fiamme, la tua cavità nasale è in fiamme, la gola è tutta gonfia”. Si tratta di una “vera e propria morte controllata”, che ha il risultato di indurre terrore e scatenare un istinto di sopravvivenza disperato, “utile” ad estorcere informazioni e confessioni. Lo conferma l’esperienza di Chris Sampson giornalista della BBC che nel 2015 si è sottoposto volontariamente al waterboarding. Mentre i militari iniziavano a gettargli acqua in faccia, sono iniziati gli spasmi e le convulsioni a cui sono seguite domande dirette molto esplicative come “Vai in giro a lanciare bombe?”, “Sei un membro di Al-Qaeda”?, domande a cui Sampson non poteva fare altro che rispondere positivamente, d’istinto, per far cessare la tortura. In alcune pubblicazioni di Wikileaks sono stati trovati interi manuali e linee guida su come attuare tecniche persecutorie in particolari rami del carcere di Guantanamo Bay.

Non si tratta però solo di paesi “democratici” come quelli occidentali, in Siria, ad esempio, esistono almeno 30 metodi di tortura che sono praticati ormai da decenni, come racconta Amnesty International (link). Tra questi troviamo: haflet al-istiqbal (“festa di benvenuto”: duri pestaggi, spesso con spranghe di silicone o di metallo e cavi elettrici); dulab (“pneumatico”: il corpo del detenuto viene contorto fino a farlo entrare in uno pneumatico da camion, poi via ai pestaggi); falaqa (“bastonatura”: il classico pestaggio sulle piante dei piedi); shabeh (“impiccato”: il detenuto viene tenuto appeso per i polsi per parecchie ore, coi piedi nel vuoto, e picchiato ripetutamente); bisat al-rih (“tappeto volante”: la vittima è legata a una struttura pieghevole, la cui parte inferiore viene pressata su quella superiore).

Nelle fiere delle armi e dei prodotti di sicurezza vengono ancora esibiti oggetti che i governi utilizzano per eseguire al meglio tecniche di contenimento e inquisizione. Nel mondo ci sono fabbriche che producono cinture elettriche, manganelli elettrici, manganelli acuminati, collari per collo e polsi, sedie di contenzione adoperate per pestaggi e alimentazione forzata (secondo Amnesty International la Cina ne farebbe un largo uso).

Ma fermiamoci un attimo. Noi oggi conosciamo la tortura come atto giustificatorio verso qualcosa di più grande e più pericoloso. Abbiamo un terrorista che sa dove è stata collocata una bomba, possiamo torturarlo per farci dire dov’è l’ordigno e salvare migliaia di vite, prevaricando i suoi diritti e la sua vita. La tortura diventa così comprensibile e capace di orientare la stessa opinione pubblica.

Questo passaggio è importante perché annulla la differenza tra uno stato democratico e uno totalitario, tra un regime e una democrazia dove è il consenso a rendere legittime anche le pratiche di difesa e controllo.

In realtà, ci dice Donatella Di Cesare, l’esempio del terrorista e della bomba a orologeria è una semplificazione fin troppo evidente. Non ci troviamo quasi mai in casi così estremi, nelle serie tv accade molto spesso, e quando ci troviamo ad affrontarli ci accorgiamo che “nella realtà le cose accadono in maniera incomparabilmente più ingarbugliata, e i rapporti di causa ed effetto sono così complessi che la tortura, semplicemente, dal punto di vista puramente pragmatico, non serve a niente”.

Razionalmente, invece, possiamo dire che a salvare le vite umane sono le “informazioni”, i dati, le sequenze, che non si ottengono quasi mai torturando persone, ma si rubano, si scoprono, si evincono con tecniche di spionaggio e di infiltrazione. Da ciò emerge che la tortura di per sé non ha alcun senso che può soltanto essere accettata “in questa terra senza ritorno dove la legge è amministrata dal fuorilegge, che la distorce a un fine inaudito, insostenibile”.

Oggi criminologi e polizie di varie parti del mondo smentiscono che la tortura sia uno strumento efficace per condurre indagini. Come abbiamo visto per il waterboarding, ci sono dei casi in cui sotto tortura si dice la prima cosa che viene in mente solo per far cessare le persecuzioni, si dice il primo nome che salta alla mente, si incolpa chiunque e ci si attribuisce reati mai commessi.

“La tortura ha un ruolo da protagonista nella storia della distruzione umana. Non è più eticamente lecito, né politicamente ammissibile, continuare a leggere questa storia secondo il vettore del progresso – scrive Di Cesare -, la violenza non è appannaggio dell’antichità, sevizie e trattamenti crudeli non sono prerogative dei primi popoli”.

Chi opera tortura non lo fa in nome di qualcuno, entra in un gioco che tecnicamente non lo rende nemmeno il carnefice di uccisioni o stupri di massa e su questo deve essere giudicato. Uno stato forte e presente non equivale ad uno stato che tortura le persone.

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