Diritti

The Commitments

8 Giugno 2020

Dato che stiamo combattendo una pandemia dal divano di casa, postare un quadrato nero sul proprio profilo social per molti ha significato la prima vera presa di posizione contro il razzismo: troppo facile.

Quando lo scorso due giugno Instagram è stato invaso da riquadri scuri con la dicitura #BlackOutTuesday, molti neanche sapevano che l’iniziativa era stata organizzata da Live Nation insieme a diverse etichette discografiche tra cui Warner Music Group, Sony/ATV, Universal Music, Motown, Capitol Records, British label Dirty Hit, Eminem’s Shady Records che hanno sospeso per un giorno qualsiasi attività.

#TheShowMustBePaused era il secondo indicatore dell’onda virtuale, scatenata dalle produttrici musicali Jamila Thomas and Brianna Agyemang e cavalcata da artisti come Ariana Grande e Rihanna, che hanno sostenuto e promosso la dimostrazione. Anche Spotify ha aggiunto otto minuti e quarantasei secondi di silenzio ad alcune playlist e podcast come tributo a George Floyd.

Un giorno per disconnettersi dal lavoro e riconnettersi con la propria comunità ha però rischiato di silenziare messaggi importanti della cronaca che si stava svolgendo per le strade, tra i manifestanti, tra gli attivisti che intanto lanciavano parole urgenti nella realtà del presente, come il discorso di Tamika Mallory a Minneapolis, per l’adesione globale a portata di click che nell’aggiungere anche l’ hashtag #BlackLivesMatter ha scombinato l’algoritmo della ricerca.

Per qualche ora il silenzio degli account della moda è sembrato assordante, finchè Valentino ha rotto il ghiaccio e (quasi) tutti gli altri brand hanno seguito a ruota: mentre le ore passavano e mano a mano si aggiungevano le partecipazioni, mi immaginavo le telefonate e le discussioni sulla strategia da adottare in quel momento, se aderire e come farlo, con quali parole…

Perchè nel fashion è sempre comunque tutta una questione di business, di potenziali nuovi clienti, di numeri che si vanno a perdere o ad aggiungere al mercato…come in politica.

Se le palette di fondotinta hanno aumentato lo spettro ad infinite sfumature di chiaro-scuro non è soltanto per la campagna contro le diseguaglianze sbandierata dai marchi, ma soprattutto perchè le aziende beauty hanno capito che avrebbero potuto incrementare ulteriormente il loro fatturato se avessero offerto alle donne nere o ispaniche un colore finalmente adatto al loro incarnato, aggiudicandosi una fetta di mercato che fino ad allora avevano praticamente ignorato.

Negli anni ’80 Naomi Campbell ha significato molto per il riconoscimento di un ideale di bellezza diverso dai canoni classici, ma la sua ascesa è valsa poco o nulla per la reale presenza di modelle di colore sulle passerelle o negli editoriali al pari delle bianche occidentali o orientali. E’ restata per decenni la Venere Nera nell’Olimpo delle dee bionde.

Nelle stagioni più recenti la presenza di modelle afro è significativamente aumentata, ma ancora una volta si è trattato di una strategia di business più che di un reale cambiamento culturale. Col fastidioso termine dell’ Inclusività, infatti, il fashion ha deliberato quelle che io definirei le quote nere, così come le quote plus size: un provvedimento temporaneo per equiparare la presenza di generi diversi, introducendo obbligatoriamente un certo numero di black o curvy models. Certo l’intenzione di ridurre la discriminazione e di sfondare il glass ceiling che di fatto impedisce a queste minoranze di raggiungere la vetta dei compensi e dei lavori è sicuramente nobile, comunque io non sono d’accordo sull’ ottenere un lavoro, una carica o una qualsivoglia posizione a prescindere da doti/meriti personali ma solo perchè lo impone una regola.

Il cambiamento deve essere culturale, di percezione dell’altro di scelta equa sulla base dei talenti e non dei talenti in quanto bianchi, neri, grassi, o magri. Finchè il punto di vista da cui si filtra ogni decisione è quello del bianco occidentale, l’inclusività sarà sempre una questione di accettazione di una minoranza nell’ esclusivo WASP Club di cui tutti stiamo cercando l’invito per partecipare. Lo cantava 2Pac in Changes nel ’98 e nulla è cambiato da allora.

Come on, come on

I see no changes, wake up in the morning and I ask myself

Is life worth living, should I blast myself?

I’m tired of bein’ poor and even worse I’m black

My stomach hurts, so I’m lookin’ for a purse to snatch

Quando nel 2017 Edward Enninful è stato nominato Direttore di British Vogue, lui che a soli diciotto anni era già fashion director di i-D magazine e che per i successivi venti è stato tra le figure più influenti nel mondo fashion-cinema e musica, finalmente il wind of change ha cominciato a soffiare verso orizzonti meno miopi.

Edward Enniful

Perchè la gigantesca stortura di tutto questo è la dicotomia tra il cultural zeitgeist e la comunità afro, come se fossero due entità totalmente diverse. Michael Jordan, Prince, Michael Jackson o Witney Houston sono lo sport, la musica, la celebrità degli anni ’80 e ’90 per antonomasia come oggi regnano Serena Williams e Beyonce, mentre Oprah Winfrey è Il Volto televisivo e Obama resta il Presidente che tutti vorrebbero ancora alla Casa Bianca, solo per fare alcuni esempi pop.

Ecco noi non vediamo più il colore della pelle in quegli idoli perchè loro ce l’hanno fatta, in qualche modo nella nostra testa non appartengono più alla comunità nera ma sono entrati nel club di cui sopra. Questa visione sbagliata non appartiene solo alla porzione privilegiata della società, ma alla società stessa, anche ai neri che continuano a combattare per il riscatto sociale che li farà uscire dal ghetto invisibile delimitato da staccionate in legno bianco e cani al guinzaglio perchè l’idea di vincere coincide con quella di lasciarsi alle spalle la propria identità.

Ecco perchè la solidarietà del mondo progressista e politicamente corretto è stata così immediata: è semplice “occuparsi” e solidarizzare con un problema quando non si è parte del problema.

Jake Gyllenhaal and Liya Kebede Calvin Klein

Se poi la lente d’ingrandimento si allontana dagli Stati Uniti e, passando per Regno Unito e Francia, si focalizza sull’Italia, il Belpaese sembra rimasto al Medioevo. Senza andare troppo lontano, considero me stessa ancora una mosca bianca in una società in cui l’uomo e la donna neri sono assenti, figuriamoci le coppie miste. Se la decisione di mia madre di sposare un uomo di colore, ma soprattutto l’apertura mentale dei miei nonni nell’accettare e rispettare la scelta della loro figlia è stato un evento straordinario per gli anni ’80 italiani, io sono nata e cresciuta in un contesto per cui sarebbe stato molto più normale e corretto se io fossi stata adottata invece di essere il dato di realtà di un atto libero, consapevole e che più di trent’anni dopo farebbe ancora fare uno considerevole balzo in avanti a questo Stato che vuole buttare a mare i migranti, che favorisce il caporalato nella gestione dei clandestini per la raccolta della frutta che imbandisce le nostre tavole, che semplicemente ha relegato al ruolo di badanti, domestiche o lavavetri la quasi totalità della popolazione nera.

Anch’io spesso mi sono guardata col binocolo sbagliato, ma il procedere diretta da sempre come eccezione alla regola, come bambina e poi ragazza e oggi donna dalla pelle ambrata, madrelingua italiana con educazione occidentale mi ha portata a pensare a me stessa come non appartenente a nessuna categoria, o minoranza, o maggioranza, e soprattutto a non vedermi più negli occhi degli altri ma soltanto davanti al mio specchio.

Credo fortemente che ciò che le lotte e le conquiste di chi c’è stato prima di noi siano una coperta che ha continuato ad accorciarsi col passare del tempo e la strada che ci avevano sgombrato è di nuovo coperta di sterpaglia. Il sentiero presente è affollato di viaggiatori che non vedono che si tratta di un vicolo cieco.

Io ho scelto il terzo sentiero e per ora osservo

 

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