Diritti
A calci e pugni sul treno per Auschwitz, mentre i milanesi restavano in silenzio
«A calci e pugni fummo caricati su un camion e portati alla Stazione Centrale di Milano. La città era deserta. I milanesi non provarono pietà per noi come i detenuti di San Vittore: se ne restarono in silenzio dietro le loro finestre. (…) Poi il camion attraversò la città, fino a imboccare il sottopassaggio di via Ferrante Aporti, e ci trovammo nei sotterranei della stazione, binario 21. L’operazione di carico e scarico fu violenta e durò un attimo, il treno era già pronto per noi: vagoni merci, vagoni bestiame. Nessuno di noi conosceva quei sotterranei, quel ventre nero della Stazione Centrale che ora chiediamo diventi un luogo della Memoria, perché migliaia di persone sono partite da quei binari e non hanno fatto ritorno» (tratto da Sopravvissuta ad Auschwitz, ediz. Paoline).
Liliana Segre, 88 anni, è una delle ultime testimoni viventi dell’Olocausto. Nata a Milano il 10 settembre 1930 da Alberto Segre e Lucia Foligno, Liliana tentò assieme al padre e ai suoi nonni prima di nascondersi e poi, dopo l’8 settembre 1943, di fuggire in Svizzera – si legge nella scheda biografica disponibile al Memoriale della Shoah di Milano. Catturati alla frontiera subirono l’umiliazione del carcere e poi la deportazione ad Auschwitz-Birkenau. Sopravvissuta ad Auschwitz e alla marcia della morte, Liliana fece ritorno a Milano, unica della sua famiglia. Dei 776 bambini italiani di età inferiore ai 14 anni che furono deportati al campo di concentramento di Auschwitz, Liliana è tra i soli 25 sopravvissuti.
Dopo lo sterminio nazista visse con i nonni materni, di origini marchigiane, unici superstiti della sua famiglia. Nel 1948 conobbe Alfredo Belli Paci, cattolico, anch’egli reduce dai campi di concentramento nazisti per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica Sociale. I due si sposarono nel 1951 ed ebbero tre figli. Nel 1990, dopo 45 anni di silenzio, si rese per la prima volta disponibile a partecipare ad alcuni incontri con gli studenti delle scuole di Milano, e da allora il suo servizio di testimoninza non si è mai fermato. È stata fra la fondatrici del Memoriale della Shoah di Milano.
Il 19 gennaio 2018 Liliana Segre è stata nominata senatrice a vita della Repubblica Italiana.
***
di Liliana Segre
Negli ultimi giorni di gennaio il quinto raggio del carcere di San Vittore si era riempito di ebrei che arrivavano da tutta Italia; eravamo circa settecento.
[…] A un certo punto, credo nel pomeriggio, entrò nel raggio un tedesco che lesse i nomi di quelli che sarebbero partiti il giorno dopo per ignota destinazione.
Erano circa 600 nomi, non finiva più. […]
Noi tutti ci preparammo a partire; ci furono distribuiti dei cestini di carta con sette porzioni di gallette, sette di mortadella, sette di latte condensato. Perché sette? Perché sette? Come facevo a guardare mio Papà? Come facevo a chiedergli la ragione di quello che ci stava accadendo?
In quelle ultime ore a San Vittore tacevo; ma ogni tanto mi allontanavo da Lui, correvo come una pazza su su fino alle grandi celle comuni dell’ultimo piano per vedere tutta quella gente sconosciuta che si preparava a partire, con gesti uguali. Era la deportazione annunciata, ne facevo parte anch’io, la principessa del mio Papà.
La mattina dopo, il 30 gennaio 1944, una lunga fila silenziosa e dolente uscì dal quinto raggio per arrivare al cortile del carcere.
Attraversammo un altro raggio di detenuti comuni. Essi si sporgevano dai ballatoi e ci buttavano arance, mele, biscotti, ma, soprattutto, ci urlavano parole di incoraggiamento, di solidarietà
e di benedizione! Furono straordinari; furono uomini che, vedendo altri uomini andare al macello solo per la colpa di essere nati da un grembo e non da un altro, ne avevano pietà.
Fu l’ultimo contatto con esseri umani. Poi caricati violentemente su camion, traversammo la città deserta e, all’incrocio di via Carducci, vidi la mia casa di corso Magenta 55 sfuggire alla mia vista dall’angolo del telone: mai più. Mai più.
Arrivati alla Stazione Centrale, la fila dei camion infilò i sotterranei enormi passando dal sottopassaggio di via Ferrante Aporti; fummo sbarcati proprio davanti ai binari di manovra che sono ancora oggi nel ventre dell’edificio.
Il passaggio fu velocissimo.
SS e repubblichini non persero tempo: in fretta, a calci, pugni e bastonate, ci caricarono sui vagoni bestiame. Non appena un vagone era pieno, veniva sprangato e portato con un elevatore alla banchina di partenza.
Fino a quando le vetture furono agganciate, nessuno di noi si rese conto della realtà. Tutto si era svolto nel buio del sotterraneo della stazione, illuminato da fari potenti nei punti strategici; fra grida, latrati, fischi e violenze terrorizzanti. Nel vagone era buio, c’era un po’ di paglia per terra e un secchio per i nostri bisogni. Il treno si mosse e sembrò puntare verso sud. Andava molto piano, fermandosi per ore.
Dalle grate vedevamo la campagna emiliana nelle brume dell’inverno e stazioni deserte dai nomi familiari. Gli adulti dimostravano un certo sollievo visto che il treno non era diretto al confine, alla sera però ci fu un’inversione di marcia e quella notte nessuno dormì. Tutti piangevano, nessuno si rassegnava al fatto che stavamo andando al nord, verso l’Austria; era un coro di singhiozzi che copriva il rumore delle ruote.
Dai vagoni piombati saliva un coro di urla, di richiami, di implorazioni: nessuno ascoltava. Il treno ripartì. Il vagone era fetido e freddo, odore di urina, visi grigi, gambe anchilosate;
non avevamo spazio per muoverci. I pianti si acquietavano in una disperazione assoluta.
Io non avevo né fame, né sete. Mi prese una specie di inedia allucinata come quando si ha la febbre alta; quando riuscivo a riflettere pensavo che forse, senza di me, Papà avrebbe potuto scappare da San Vittore, saltare quel muro come aveva proposto un altro internato, Peppino Levi, o forse no. Mi stringevo a Lui, che era distrutto, pallido, gli occhi cerchiati di rosso di chi non dorme da giorni. Mi esortava a mangiare qualcosa, aveva ancora per me una scaglia di cioccolato; la mettevo in bocca per fargli piacere, ma non riuscivo a inghiottire nulla.
Nel centro del vagone si formò un gruppo di preghiera: alcuni uomini pii, fra i quali ricordo il signor Silvera, si dondolarono a lungo recitando i Salmi; mi sembrava che non finissero mai: erano i più fortunati. Le ore passavano, così le notti e i giorni, in un’abulia totale: era difficile calcolare il tempo. Pochissimi avevano ancora un orologio e anche quei pochi privilegiati non lo guardavano più. Ogni tanto vedevo qualcuno alzarsi a fatica per cercare di capire dove fossimo, guardando dalle grate, schermate con stracci per riparare dal gelo quel carico umano. Si vedeva un paesaggio immerso nella neve, si vedevano casette civettuole, camini fumanti, campanili…
Prima che cominciasse la Foresta Nera, il treno si fermò e qualcuno poté scendere tra le SS armate fino ai denti, per prendere un po’ d’acqua e vuotare il secchio immondo.
Anch’io e il mio Papà scendemmo e vedemmo per la prima volta, scritto con il gesso sul vagone: “Auschwitz bei Katowice”. Capimmo che quella era la nostra meta. Il treno ripartì quasi subito e la notizia della nostra destinazione gettò tutti in una muta disperazione. Fu silenzio in quel vagone in quegli ultimi giorni. Nessuno più piangeva, né si lamentava. Ognuno taceva con la dignità e la consapevolezza degli ultimi momenti. Eravamo alla vigilia della morte per la maggior parte di noi. Non c’era più niente da dire. Ci stringevamo ai nostri cari e trasmettevamo il nostro amore come un ultimo saluto. Era il silenzio essenziale dei momenti decisivi della vita di ognuno.
Poi, poi, all’arrivo fu Auschwitz e il rumore assordante e osceno degli assassini intorno a noi.
(tratto dal sito ufficiale del Memoriale della Shoah di Milano)
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