Diritti
Teatro sociale d’arte, il festival Trasparenze mostra la via
A Trasparenze, il festival svoltosi dal 10 al 13 maggio a Modena il teatro decide che è tempo di uscire fuori dal carcere. E dalle convenzioni di chi continua a vedere palcoscenici di serie “A” e “B”. Cioè: nel primo campionato gioca solo l’arte mentre nel secondo, quello sociale, si fanno da anni i conti con luoghi di pena e detenuti, immigrati sbarcati da Africa e terre d’Oriente, rifugiati scappati da scenari di guerra e violenze, portatori di handicap etc… Un teatro a contatto con mondi paralleli ai nostri ma sconosciuti al grande pubblico. Dalla città emiliana è venuta la spinta ad uscire dal limbo per confrontarsi a pieno titolo e pari dignità; senza complessi e senza indugio a testa alta. Per diventare a tutto campo fonte di nuova spettacolarità e ricerca, portatore di valori ed esperienze che, al limite del cortocircuito, possono infiammare la scena con una energica scossa, generando a ripetizione ondate di creatività ed esperienze foriere di inedite avventure. E’ il tempo quindi del coraggio: occorre superare vecchi fossati riportando il teatro ad essere specchio del tempo, luogo di passioni civili e politiche dove è il cuore della ricerca e della sperimentazione a indicare la via.
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Questo è anche l’ambito in cui opera con dedizione a Modena il Teatro dei Venti diretto da Stefano Tè. Più di una compagnia è una comunità che punta sul futuro senza dimenticare il passato. E questo lo si è percepito nettamente vivendo dopo gli spettacoli nel villaggio popolare allestito nel piccolo parco davanti alla sede dello stesso teatro: un luogo giusto per socializzare ad ogni ora tra spettatori incalliti e ragazzi di ogni età, mamme con carrozzella e nonni curiosi. Questa attitudine ha spinto il teatro dei Venti a dare spazio ai Cantieri per gruppi emergenti, organizzando una rete di laboratori, stimolato anche da una innovativa Konsulta di spettatori tra i 16 e 26 anni che collabora con la direzione artistica ed è costantemente presente negli incontri con il pubblico e gli artisti. Inoltre, dal 2006, la compagnia realizza progetti in carcere nella casa di reclusione di Castelfranco Emilia e la Casa circondariale di Modena, è attivo nella cooperazione internazionale in Mozambico come in Senegal e collabora nel campo della salute mentale con l’Asl di Modena. Allestisce infine il festival Trasparenze, dove si cerca una sintesi tra i due diversi campionati.
Per il suo decennale stavolta, oltre a un ricco programma di spettacoli, ha voluto organizzare una ricognizione sul tema del teatro sociale, dedicando una intera giornata, quella di domenica, con il convegno “Che teatro sarà” _ realizzato grazie al teatro Ebasko _ aperto a operatori e teatranti, giornalisti, critici e studiosi come Claudio Longhi e Gerardo Guccini, articolato in quattro diversi tavoli di lavoro dedicati a quelli che oggi si stanno definendo come i nuovi spazi d’azione del teatro sociale d’arte: dalla drammaturgia all’organizzazione, dal ruolo dell’attore e quello della regia. Proprio quest’ultimo è un settore chiave. Presiede pratiche e visioni, gioca con l’esperienza e, padroneggiando le tecniche, a cominciare da quella del montaggio, costruisce e inventa nuove soluzioni per quel teatro finora chiamato “sociale”, nato spesso in situazioni di marginalità e a contatto con persone in particolari condizioni di disagio. A questo proposito il critico e studioso Andrea Porcheddu introducendo il tema, la domenica mattina tra i velluti del teatro Storchi, ha osservato in particolare come, per quel che riguarda la pratica della regia il teatro sociale ben si colloca nella discussione in atto tra cosiddetta “regia debole” e “super-regia”. “Da un lato, infatti, _ dice il critico _ il regista non può non confrontarsi con un lavoro di staff, sempre articolato e complesso. Operatori di settore, specialisti, amministratori, personale sanitario e altre individualità concorrono necessariamente alla creazione dello spettacolo. Dall’altro lato, il regista deve saper imporre la propria visionarietà, la propria arte, il proprio progetto artistico ad attori, attrici, soggetti terzi, in contesti fortemente connotati”.
Ecco la strada maestra che auspica una rifondazione del teatro contemporaneo in Italia. Fuori dalle logiche mainstream e d’apparato. Una scena più duttile al crossover di esperienze e ricerca inedite esperienze e confronti. Ma senza creare dei modelli, caldeggia Antonio Viganò, direttore artistico del teatro della Ribalta di Bolzano, una delle compagini in Italia più avanti in questo tipo di sperimentazione. “Non esiste una specificità del regista sociale. Il regista deve lavorare sul corpo poetico e quello narrativo” afferma Viganò, a significare che le differenze sono una risorsa e un fattore di arricchimento della società stessa, ribadendo però con forza: “C’è un solo teatro”. Affermazione fatta propria in apertura di convegno anche dal padrone di casa Stefano Tè. E dove però il regista assume sempre più “un ruolo di mediazione” tra le diverse parti, precisa il critico Renzo Francabandera di Pac, (www.paneacquaculture.net). A ricordare invece che il teatro “è un arte che interviene nella trasformazione politica della società” è Alessandro Garzella di Animali Celesti rilevando come il teatro sociale sia un “portatore di idee in cui il significante può essere fortissimo”.
Per superare l’omologazione di chi vuole un consenso spesso acritico di palcoscenici popolati da testimonials e non da attori, rigettando appiattimenti, inutili sofismi, distinguo verbali e accademici sul sesso degli angeli, il teatro sociale d’arte deve affermare il coraggio delle idee approfondendo la conoscenza dello stato delle cose. Andrea Porcheddu esorta infatti a mettere in rete urgentemente “le mille esperienze, i percorsi, le specificità: prima che, come accadde per i poeti un secolo fa, questa stagione dissipi l’entusiasmo dei propri teatranti. Si tratta di fondare proprio sulla alterità e sulle differenze il momento comune, di incontro e confronto”, magari con la creazione di un Festival Nazionale e Internazionale dedicato proprio al Teatro sociale d’arte.
Tutto ciò è già una realtà che cammina, propria di chi opera da tempo in questa direzione: compagnie, attori, registi e festival come Trasparenze. Un festival necessario questo, che riesce a far muovere lo sguardo laddove spesso non vogliamo osservare per riflettere su quanto accade anche a pochi metri da casa nostra. Esistono mondi diversi simili a sconosciuti pianeti popolati di ombre che per istinto fuggiamo. Solo il teatro può svelarle e raccontare. Ecco alcuni esempi “forti” mostrati proprio da Trasparenze.
A piedi nudi sul parco. Sono corpi in fuga e in cerca di nuova identità. Avanzano scomposti nel cuore della città opulenta che osserva in modo sfocato. Quella della danzatrice e coreografa Simona Bertozzi in “Poem of you, whoever you are”, azione per Wonder Land è una danza non danza fatta di gesti minimali forti e decisi, coreografie complesse dell’animo, rivelatrici di dolore e passioni. Suggerisce le storie di chi ha fame di libertà. I danzatori, uomini e donne, in questo caso i richiedenti asilo del gruppo Marewa (già impegnati in laboratori con il teatro dei Venti) hanno lavorato due giorni fitti con la coreografa. E il sabato mattina, come in un happening conquistano un fazzoletto di terreno nella centrale piazza Matteotti per danzare scalzi sulla dura pavimentazione, tra alberi, verde, panchine ed edicole, a pochi metri dalla centrale via Emilia con il suo ordinario via vai di biciclette e bus colorati di giallo a due passi dal Duomo, dove sotto l’austera torre della Ghilardina c’è il consueto intreccio operoso di gente che corre per affari o entra dentro il mercato civico, trasbordante di profumi e colori. In pochi minuti le figure coreografiche diventano complesse e i danzatori riconducono a unità quello che inizialmente sembrava su un punto di disgregazione. C’è energia, eleganza e levità: una forza espressiva che prende il cuore.
Senza parete. Stesso sentimento che si ritroverà poche ore più tardi, all’interno della Casa circondariale di Modena. Per detenuti e un gruppo selezionato di spettatori si accende una commozione intima per quello che sarà forse l’atto più coinvolgente del festival, quegli “Esercizi per voce e violoncello sulla Commedia di Dante” proposti da una grande protagonista della scena contemporanea qual’è Chiara Guidi della Societas Raffaello Sanzio in collaudato scambio di parole e suoni con l’ottimo violoncellista Francesco Guerri alle prese, oltre al violoncello, con uno strumento di sua invenzione ricavato da una chitarra per spaghetti, amplificata da due magneti. Ed è il suono ruvido e sporco di questo strumento, fatto di interferenze che accompagna e apre il reading con squarci improvvisi, come fosse una trasmissione radiofonica disturbata da scariche elettriche.
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E’ il primo canto della Commedia, quello in cui il Poeta si ritrovò “nel mezzo del cammino in una selva oscura”. Ed è un Dante stralunato, sorpreso e smarrito che cerca se stesso. Perso e tormentato. Chiara Guidi, quasi fuori fuoco nel buio della sala, presta la sua voce ad Alighieri precisa nel punteggiare la metrica, unica traccia per non perdersi nell’Inferno, guida indispensabile per quel poeta così vicino ai nostri giorni, uomo tra gli uomini. Ed è una sequenza che, salendo d’intensità, alla fine sembrerà far polverizzare pareti e soffitto di quel luogo di clausura. Apre così la finestra sul Quinto canto, quel meraviglioso racconto dell’amore di Paolo e Francesca uccisi dal geloso Gianciotto. Condannati a bruciare nelle fiamme eterne. Nella voce di Chiara che arrotonda le rime e le fa palpitare di vita c’è tutto il dramma dell’uomo Dante che nell’evocazione di questa intensa e coinvolgente passione viene preso dalle vertigini, perde i sensi e cadde “come corpo morto cade”.
Ecco infine il Quinto canto del Purgatorio in cui Dante trova le anime che, in attesa di poter essere ammesse in Paradiso, si purificano. L’incontro con i carcerati (preparato intensivamente in soli due giorni) brucia un folgorante attimo di palpabile drammaticità, mentre i versi della “Commedia” acquistano il peso della contemporaneità e della vita in comune. In un battito di ciglia differenze e spazi si azzerano e d’improvviso si viene catapultati, tutti assieme, attori e pubblico, nel territorio della poesia, rinfrancati dalla gioia di un canto libero. Senza più pareti.
Altro interessante capovolgimento teatrale, denso di significati, sempre nello stesso luogo del carcere, il pomeriggio del venerdì, con il coinvolgente “Requiem per Pinocchio”: in scena un formidabile attore come Simone Perinelli che, in un crescendo senza pausa alcuna, offre un affilato corpo a corpo con il personaggio di Collodi, rovesciandone la figura. La marionetta non ne vuole proprio sapere di diventare umano, piuttosto vuole vivere per quello che era: una marionetta. Parlando al Giudice che lo processa non ha ripensamenti. “Preferisco faticar per uscir da una balena, che non per esser libero un sol giorno a settimana _ dice Pinocchio _ ché non mi bastan quattro giorni al mese per vivere la vita, quindi la lascerei a voi questa fatica e non perché sia tipo da battere la facca, no, ma stavo meglio col cappio al collo che col nodo di cravatta. Se non dispiace Vostro onore tornerei alle mie peripezie, piuttosto il paese dei balocchi, ma non quello delle lotterie!”. Un disperato e fiero inno alla libertà, che scava nel profondo e reclama per sé il diritto a scegliere la propria vita, anche a costo di sbagliare.
Trasparenze ha un menù allettante e riuscire a seguire tutti gli eventi, spesso è un’impresa, ma ne vale la pena. C’è “Home Project” di Ranieri, Serlenga e Brahim che disarticola una casa fuori dalle mura domestiche, spargendo letti e tavoli, poltrone e divani in tutto il parco: a dare un senso di casa non sono gli oggetti ma i rapporti tra le persone. In “El viatge de la vergonya” dei catalani Nasfrat si rivive in prima persona invece il dramma dell’immigrazione. Tra i tanti e diversi esiti laboratoriali, da segnalare quello delle Ariette che in “Pastela” raccontano con i pensionati di una casa protetta la memoria del cibo e “Blink”, laboratorio su teatro e salute mentale condotto dalla compagnia Stalker e Daniele Albanese. Imperdibili gli appuntamenti con i teatri Mobili e le performance a numero ridotto di spettatori dentro le platee allestite dentro i camion teatro.
Acerbi e ancora con un bel po’ di strada da percorrere i gruppi prescelti per i Cantieri, i promettenti BologniniCosta, Cantiere Artaud, molta voglia di fare ma anche un po’ di pasticci ed errori nella scrittura e, infine, quelli che conquistano il pubblico più giovane, Generazione Disagio, anche questi assai esuberanti, ma spreconi: accumulano e sperperano energia e belle idee (come quella di fare apparire con un colpo di scena un’auto dentro il palcoscenico). Ci sono, come è logico che sia, anche allestimenti in progress con un montaggio ancora aperto, vedi l’orwelliano “Domino” del teatro Nucleo evocante scenari dittatoriali apocalittici e inquietanti. Un invito urgente a diffidare dalle false democrazie e a scoprire i germi autoritari che si nascondono nei meandri del potere. Ma anche lavori di cui si fa fatica a coglierne il senso, quale la coreografia “Barbecho Urbano” degli spagnoli Natxo Montero che mostra due danzatori con il volto nascosto da un mascherone di maiale rosa. Azioni un po’ casuali, una giostra di movimenti spesso fini a se stessi senza una vera meta. Accenni di una danza che si perde nella noia.
Fortunatamente non mancano le sorprese. Ad esempio quella di imbattersi in uno spettacolo che colpisce come un uppercut allo stomaco. Un lavoro apparentemente senza schemi, anarchico e ricco di energia, ma invece ad una analisi approfondita mostra di essere il frutto di una raffinata ricerca sui luoghi del disagio e della violenza. Teatralmente nutrito da un amore sincero per la commedia dell’arte è “Tvatt”, dei campani Eternit. Un lavoro che si snoda come un incontro di boxe in tre round: da una iniziale caricatura dei talkshow diventa un musical act sostenuto da una colonna sonora originale composta da musica elettronica (fa pensare ai Tuxedomoon di Steven Brown) con intrecci funky e riferimenti classici, scritta ed eseguita da Camera (costola musicale del gruppo ). “Tvatt” è dichiaratamente ispirato da “East” e “West” del “cattivo” inglese Steven Berkoff, storie di bande di quartiere in lotta nelle periferie della grande metropoli londinese, La scena si apre con l’attore Luigi Morra che, dopo aver registrato in una loop station frasi in dialetto casertano, pesca volta per volta uno spettatore tra il pubblico, invitandolo a ripetere. Non come in un telequiz, ma dentro una vera sfida fatta sul filo della tensione. Tra prepotenza e aggressività.
Lo spettacolo dà spazio anche agli altri due attori, Eduardo Ricciardelli e Pasquale Passaretti in “soli” di bella presa che ricostruiscono scenari di ordinaria vita di periferia. D’altra parte come suggerisce l’acronimo del titolo Teorie Violente Aprioristiche Temporali e Territoriali e il motto “Tvatt” in gran parte del Sud è la sfida, il “Ti batto” che precede lo scontro. Lo spirito della commedia dell’arte attraversa tutta l’azione scenica che nel finale offre una pirotecnica energia colorando di rosso il palcoscenico, con alcune angurie gettate con rabbia sul palco, consegnando così lo spettacolo all’abbraccio di un pubblico in visibilio, soddisfatto di aver incontrato per freschezza e potenza uno dei migliori spettacoli di questo festival.
Il tema al centro di questo Trasparenze del teatro sociale d’arte ha avuto un significativo punto di forza (oltre allo spettacolo di Chiara Guidi e la coreografia di Bertozzi) in chiusura di rassegna, nell’allestimento firmato da Stefano Tè, un “Ubu Re” messo in scena dal teatro dei Venti assieme a un gruppo di detenuti del carcere di Modena. Un “Ubu Re” notturno che guarda piuttosto a Shakespeare e al “Macbeth” in particolare; nello stravolgere Jarry, Tè lo dipinge con le fattezze di un dramma televisivo alla stregua del “Trono di spade” con i personaggi al limite dello splatter, violenti e assettati di potere. La scena taglia in due in pubblico. E’ una sorta di praticabile lanciato nel mezzo di un’arena come la lama affilata di un coltello. Qui danzano e compiono i loro macabri giochi di morte Ubu (Antonio Santangelo) e la crudelissima Mere Ubu (una affilata e straordinaria Oksana Casolari). Il praticabile a forma di parallelepipedo sotto gli occhi del pubblico si trasforma via via, come per incanto, in una piramide dove i cadaveri si accumulano lungo le mura. Tanto sangue e violenza sulla sommità del mondo dalla quale chi attenta al potere sarà precipitato in basso, la stessa sommità dove salirà il giovane erede undicenne, il principe Bugrelao, figlio del re Venceslao ucciso e spodestato dai due Ubu. Qui, nell’alto della piramide, sparerà a ripetizione nel buio con una pistola ad acqua, riconducendo a sorpresa “Ubu Re” , con un’ulteriore ribaltamento, in territorio patafisico.
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L’ultimo atto di “Trasparenze” è previsto il prossimo 6 giugno alle 21, a Modena con l’allestimento del “Moby Dick” in piazza Roma.
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