Diritti
Idioti, guardoni, perversi: i like a Pagnani parlano del paese, non del web
Cosa pensereste se iniziassimo un discorso sulla comunicazione partendo da un uomo che ha ucciso la ex moglie? Probabilmente non lo considerereste un nesso, ma un volo pindarico. Invece se ci fermassimo un attimo potremmo ricordare che fino a pochi anni fa nostre vite erano opportunamente “divise”, tant’è che ancora maramaldeggiava la famosa espressione «fatti una vita non stare su facebook» (per indicare l’esistenza virtuale come giuggiolosa e immaginaria proiezione di quella reale). Oggi invece l’universo web ha progressivamente acquistato la credibilità necessaria non solo per quelli che ci lavorano, ma anche agli occhi di chi lo usa per scopi privati. I tiggì che poco tempo fa menzionavano l’aggeggio solo per casi estremi tipo questo ora lo considerano parte integrante della società, non risparmiando però l’accusa di essere un serbatoio del Male. Il problema –e la risorsa- oggi, appunto, è il confine sottile: ormai quello che fai e che sei su facebook o su twitter te lo porti in ufficio, in bagno, in riunione, a letto prima di dormire.
Cosimo Pagnani prima di uccidere la moglie annuncia il misfatto su facebook, anche se per ora i contorni della tempistica non sono chiari. Potrebbe averlo scritto a delitto compiuto, ma poco conta. Ecco quindi il primo ruolo: il confessionale. Facebook diventa una sorta di sgabuzzino per le turbe che non possiamo far emergere nel quotidiano, un anfratto dove raccogliere quell’attenzione che nel quotidiano non si riesce a trovare. Un palcoscenico con la tenda di scena a coprire il pubblico e non il palco, un proscenio in cui spesso il primo spettatore è il protagonista stesso. Pagnani scrive su facebook per imprimere un segno tangibile alla sua esistenza, prima ancora che alla sua furia. Lo regala a se stesso in primis, come noi facciamo con ogni nostro pensiero espresso sulla medesima piattaforma. Usciamo sempre dal guscio incendiari con l’impressione di restarvici, perché appunto la visione ancestrale del web in genere come sottobosco ombroso appartiene a tutti, e facciamo una fatica terribile a scrollarcela di dosso.
Qui subentra un secondo ruolo importante, che è quello del bacino di popolarità. Il social network consente l’espressione senza spazio condiviso, e annulla il tempo di ascolto. Questo comporta che i pensieri possano magari essere ignorati, ma sempre conosciuti. Su facebook qualcuno che ascolta si trova; al bar, a scuola, a lavoro è invece più difficile. È qui che scatta l’esigenza (attenzione, esigenza, non desiderio) di comunicare, primordiale e spesso repressa ogni giorno. Tutto alla ricerca di una giustificazione di adeguatezza ai codici convenzionali. Da lì il “like”, strumento ibrido dai più significati con cui si risponde all’azione – perché pensateci, sul web il pensiero e l’azione viaggiano sullo stesso binario- con una reazione generica, quasi coatta, non solo nella declinazione dialettale ma nel senso originario del termine.
Si è dunque trascinati in un vortice iconoclasta in cui il giornale pubblica la foto dell’omicida, del suo profilo facebook, e fa montare nel lettore qualsiasi emozione insita in un ampio raggio che va dalla rabbia alla curiosità quasi perversa, la stessa che ci assale quando rallentiamo in autostrada in prossimità dell’incidente per gustarci qualche particolare che però si dichiara di non voler vedere.
In sostanza quei “mi piace” che tanto hanno turbato non hanno (nella maggior parte dei casi) alcuna accezione razionale. Corrispondono più o meno alle foto scattate dai turisti di fronte alla Costa Concordia a due giorni dalla tragedia, corrispondono ad un’azione collettiva che, come sempre accade, è un rigurgito di pancia totale. Debord nel suo “La società dello spettacolo” diceva che l’uomo nello spettacolo è il contrario dell’individuo comune, e il processo più interessante del social network è proprio quello che offre al singolo individuo l’opportunità di spettacolarizzarsi. L’individuo su facebook diventa personaggio. D’altronde come scrive Debord: «Passando nello spettacolo come modello d’identificazione egli ha rinunciato a ogni qualità autonoma per identificare sé stesso con la legge generale dell’obbedienza al corso delle cose».
L’obbedienza al corso delle cose è quella per intenderci che ci impone di non uccidere la propria moglie, e nel codice più criminoso quella che ci ammaestra anche a tener nascosto il misfatto. L’obbedienza al corso delle cose, ad esempio, ci impone di ignorare il profilo dell’omicida, perché “non deve fare notizia”, e ci impone di non mostrare alcun segno di approvazione per una bestialità simile. Eppure intanto i giornali ne parlano e attirano altri utenti sul profilo che mettono mi piace e magari ispirano altri articoli in aggiornamento allarmista. L’Huffington Post che qualche tempo fa pubblica il video di una tragedia e ti invita a guardare “come muore un calciatore mentre esulta” è poi quello che condanna i like al post, quasi come se la sola avvertenza fosse solo ‘non toccare’, invece che ‘ignorare’. Un po’ come la famosa scena di Fantozzi e del medico dietista tedesco: non è morale, è sadismo perverso.
Intanto i like sono cresciuti in poche ore non tanto perché il post fosse giusto, ma perché il post nel frattempo era diventato celebre. I “Mi piace” Si incastonano come foto ricordo e si mischiano tra chi prende una frase generica di un suo contatto e la applica al suo modo di vivere, i sensazionalisti, e chi condivide inorridito e sufficientemente stronzo da far inorridire anche i suoi contatti, pardon… il suo pubblico. E torniamo al discorso di cui sopra.
La perversione verso l’orrido è qualcosa di davvero diffuso sul web, proprio perché c’è questa ingenua sensazione di riparo fisico: insomma si è già quasi nel 2015 ma sembra ancora il 2008, e non tutti hanno ancora ben compreso il cambiamento. Ora abbiamo gruppi costruiti apposta per scovare commenti di ridondante bruttezza, e su quello ridiamo. Il like invece no, il like fa inorridire più per il suo ermetismo che per la sua posizione.
Al di là del discorso sullo spettacolo e sulla celebrità ad personam però, il web offre anche la possibilità di far emergere individui dai personaggi che nel quotidiano bazzicano la vita in 3D, producendo anche l’effetto contrario: creare una società più ricca e (mediamente) più cosciente. Questo agli altri media non è mai piaciuto, perché altrimenti non parlerebbero solo in questi termini e perché altrimenti non avrebbero il prefisso mass- prima di media.
Questa possibile esplosione dell’individuo (e non dell’individualismo) può essere un punto di partenza, soprattutto può permettere di iniziare a considerare internet per quello che è: il mondo interiore, quello degli estremi, delle lacrime, del bimbo che viene al mondo, quello delle nuove amicizie costruite per interessi comuni, quello della foto del politico coi rom, di Gasparri che litiga, di Morandi che finge d’essere semplice e non ce la fa come ci riesce fuori, e ahimè, anche quello di un annunciato omicidio, e delle relative bestiali approvazioni. Internet ha soltanto acceso la luce.
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