Diritti

Sirma. Il terribile arcano di un bambino e una spiaggia

7 Gennaio 2017

Ricordo di aver letto – forse una decina d’anni fa – un’intervista a Tullio De Mauro a proposito degli antichi idiomi a rischio di scomparsa in Italia. Egli invitava a non drammatizzare, e ricordava come a metà del Novecento l’italiano fosse parlato abitualmente da meno del 20% della popolazione. E poi citava il griko, una delle lingue “dentro le quali” chi scrive è cresciuto, come esempio di una lingua data recentemente per spacciata e poi risorta a una nuova fortuna.

Ricordo che, quando per la prima volta in vita mia passai una notte intera in un letto con una ragazza, a casa mia – mia e dei miei genitori – c’era il mio nonno materno. Lui era un greco salentino, appunto, ma solo quando beveva un pochino, cosa per lui poco usuale, rompeva la tacita regola che vigeva in casa nostra: non parlare in griko, né in salentino, rivolgendosi a noi bambini (io, mia sorella, i miei cugini). Il griko lo parlavano semmai gli anziani fra loro, il salentino lo parlavano invece tutti quanti e tutti i giorni, com’era normale: ma con noi figli e nipoti il più delle volte si cercava di parlare italiano. Insomma, in questa enorme casa ch’era una specie di babele le lingue continuavano a mischiarsi, indomite, belle, così antiche e precarie. Quando provavo a parlare delle “femmine” col nonno la risposta era sempre di chiedere a sirda, a tuo padre, in salentino. Sirma sarebbe dunque “mio padre”.

Trovo che sirma sia una parola bellissima. Una delle tante imparate. Quella mattina, dopo la notte passata con la ragazza, mio nonno aveva invece in bocca parole greche come krasi, il vino, per dire la gioia di essere al mondo, e mi spiegò che il più brutto dei proverbi della nostra lingua recita che le rose cadono ma le spine restano, ta roda pèttune ce ta kàttia mènune, e io pensavo fosse un privilegio di noi maschi quel parlare libero e onesto. Eppure no, non era così. Non si trattava di un privilegio per maschi. In casa comandava mia nonna, mia nonna che cercò invano di colpirmi soltanto una volta, quando chiamai puttana mia sorella, aderfi in griko e sorma, mia sorella in salentino. Il nonno era sempre in giro. Quando mi svegliavo al mattino lui era già uscito da un pezzo per andare a fare la barba ai morti del paese. La casa, dicevo, era povera e enorme.

Tante stanze, tante terrazze, un grande spazio al pian terreno dove per anni i miei nonni ospitarono una famiglia marocchina che faceva i mercati. “Irtamo, griki, san adèrfia e’ citti chora. Aderfò ene ja ma is pu èrkete na ma vriki”. “Siamo venuti, greci, da fratelli in questa terra. Fratello è per noi chiunque qui ospite venga”. Sarebbe bello se queste parole potessero restare vive nel tempo, e nel pieno del loro significato profondo. Ma questa lingua era viva, insomma, come sosteneva De Mauro? Io temo di no. Immagino non fosse già più viva, quando quel dialogo fra nonno e nipote avveniva. E temo non fossero ormai più vivi neppure quei sentimenti di ospitalità, di mobilità, di ospitalità nella mobilità. Quella famiglia marocchina contava un buon numero di bambini. Ricordo in particolare una ragazzina, di cui ora mi sfugge il nome, forse appena più piccola di me e con gli occhi e la pelle scuri, scuri come non avevo forse mai visto così da vicino. La morte è tànato, in griko, e i ragazzini vispi e i ragazzacci vasfàsi, come tante volte mi hanno chiamato con fare affettuoso. La morte è ancora un tabù, in quella mia vecchia cultura.

Nella mia stessa famiglia uno strato di nebbia avvolge la storia di due bambini, due bambini “di noi”, morti drammaticamente e misteriosamente in quella stessa casa. Storie che non riescono a squarciare il filtro che il dolore ha costruito affossando il ricordo. Il dolore: lipi, femminile, pono maschile e io non ho capito bene in che modo, come e quando poi usarli. Però ho imparato a restare in silenzio di fronte alla morte. Un silenzio pieno ma colmo, come quello che osservavo fra mio nonno e il papà di quella bambina tutta nera bella e piccina che guardavo con un misto di curiosità e di paura. Un silenzio che però ha sancito una lunga e affettuosa convivenza (bizzarra ed insolita) in un borgo pugliese dell’ultimo quarto del Novecento. Un silenzio come quello che ieri mi ha avvolto mentre guardavo la fotografia di un bambino senza vita in un giaciglio di spiaggia.

Quando mio figlio, che ha sei anni, mi si è avvicinato da dietro io ho abbassato e poi chiuso il computer portatile. Che fai?, mi ha chiesto, e io sono rimasto in silenzio. Poi mi è tornato in mente mio nonno. Ho pensato “diamine, non ricordo come si dice in griko silenzio”. Poi la notte l’ho sognato, mio nonno. Guardavamo insieme il mare, dall’alto di una scogliera. Mio nonno era rassicurante, come sempre è stato da vivo e come per me è ancora da morto. Poi mi sono svegliato e mi sono chiesto “chissà se quel bambino parlava, o in quale lingua avrebbe imparato a parlare”.

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