Diritti
Si può far finta di non vedere un’altra donna barbaramente uccisa?
“La bocca sollevò dal fiero pasto | quel peccator, forbendola a’ capelli | del capo ch’elli avea di retro guasto. ((Inferno, Canto XXIII)
Verona è la Città dell’Amore, si sa. Shakespeare la scelse come ambientazione per una delle sue più famose opere, “Romeo and Juliet”, ponendola in una cornice di romanticismo che permane ancora oggi.
Eppure non c’entra nulla con l’amore quanto è avvenuto nell’appartamento di Chiara Ugolini, una ragazza di 27 anni ritrovata morta dal fidanzato, Daniel. Nell’appartamento a Calmasino di Bardolino, Verona, una zona collinare sopra il lago di Garda. Il quadro è quello di un omicidio. C’è già un presunto responsabile che è stato fermato ieri dalle pattuglie della stradale all’altezza del casello di Firenze Impruneta. Chiara era un’atleta e un’allenatrice di pallavolo della Volley Palazzolo.
Siamo talmente assuefatti alla violenza contro le donne che certe narrazioni sembrano lontane e astratte. Spesso si liquida un omicidio chiamando in causa la pazzia, il senso del possesso, non si fa altro, in questo modo, che giustificare la crudeltà eretta a sistema.
L’emancipazione femminile ha avuto come suo corollario violenze, stupri, femminicidi. L’autonomia femminile ha messo in crisi i rapporti di genere che fanno capo a ruoli rigidi e risalenti ad un’epoca patriarcale. La violenza è la risposta adottata da alcuni uomini che non possono più esercitare il loro potere decisionale, che non reggono l’affronto all’aver perduto posizioni di comando.
Perde sempre più quota il relativismo culturale. La conferenza mondiale delle donne, tenutasi a Pechino nel 1955, stabilisce in modo rivoluzionario che le offese al corpo e allo spirito delle donne non si giustificano con il rispetto per i valori culturali di Paesi ancorati a tradizione e rituali antiquati. Si pensi ad esempio al persistere presso alcune culture di violazione dei diritti umani fondamentali sanciti in Carte internazionali, come le mutilazioni genitali femminili, la negazione della libertà di movimento, lo stupro, la prostituzione e matrimoni precoci stabiliti dai padri.
Emblematico è il caso di Saman Abbas, uccisa dallo zio, esecutore materiale del delitto, in concorso “materiale e morale” con padre e madre, perché non voleva sposare un cugino in Pakistan.
Il caso Grillo, inoltre, ha sollevato un polverone sulla responsabilità femminile dal momento che la denuncia dell’abuso non è stata formalizzata nell’immediato verificarsi della violenza. Come se la donna fosse un automa, come se non avesse le sue paure: quella di essere additata, giudicata, messa alla gogna da un sistema che è più solidale con lo stupratore che con la sua vittima.
Il movimento “#Mee Too” con la condanna di Weinstein a 23 anni di carcere, è un segnale lanciato a tutta l’America, e forse al mondo, che il clima sugli abusi sessuali è davvero cambiato. Si è voluto sancire che la giustizia non è più disposta a chiudere un occhio, è propensa ad ascoltare le vittime, crede alle loro denunce, e punisce in maniera pesante i colpevoli, anche quando sono potenti e sostengono che i loro rapporti erano stati consensuali.
Antesignano di un certo modo di fare arte fu il teatro di Franca Rame che approfitta del largo pubblico per diffondere le proprie denunce. La sera del 9 marzo del 1973, Franca Rame viene affiancata da un furgone in via Nirone, a Milano. Costretta a salirvi, viene torturata e violentata a turno da cinque esponenti dell’ambiente neofascista. Si tratta di uno stupro punitivo: i violentatori sono eversori di destra che vogliono farle pagare le sue idee politiche e le sue battaglie civili. Lo stupro vuole ferire la donna, zittirla, umiliarla, “darle una lezione”. Dall’episodio doloroso nasce un’opera d’arte che dà voce al trauma, parla del dolore che tante altre donne hanno subìto, trasformandosi in un potente mezzo di denuncia. Superando la vergogna e la sofferenza del rievocare quei fatti, fin dagli anni settanta, Franca Rame è anche attiva nel movimento femminista, a cui dà il suo contributo artistico con spettacoli quali “Tutta casa, letto e chiesa” e, successivamente, nel 1994, “Sesso? Grazie, tanto per gradire” che denuncia, sempre con l’autoironia che la contraddistingue, l’ipocrisia e l’ignoranza che circondano il tema del sesso.
Perché il teatro, lo dice bene Emanuele Trevi, “è rimasto identico a quello che poteva essere ai tempi di Aristofane o Plauto”. Mentre i personaggi di una storia sono fissi e non possono interloquire con lo spettatore, il palcoscenico offre una dialettica che miracolosamente si ripete ogni sera.
Ogni sera il teatro, col suo carrozzone, si muove sospeso sul filo del consenso o del dissenso, in un corposo testa a testa con il pubblico.
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