Diritti

Shira Banki è morta. Il maledetto fanatismo uccide le opportunità e il futuro

3 Agosto 2015

Nel 1993 avevo sedici anni e vivevo nella mia Toscana – in uno degli angoli più belli della provincia italiana – frequentavo un istituto tecnico e oltre ad avere in silenzio i primi veri sussulti e i primi sintomi di quella repressione omofoba che mi ha accompagnato per troppo tempo, passavo il tempo a studiare, a leggere in maniera affamata qualsiasi cosa mi passasse davanti, mi avvicinavo alla sinistra giovanile locale, studiavo la politica di Berlinguer e osservavo assetato da lontano tutto il bailamme di Mani Pulite. Nel frattempo tifavo ogni pomeriggio per Ambra a “Non è la Rai”.

Nel 2015 Shira Banki aveva sedici anni. E’ morta ieri dopo due giorni di agonia in ospedale, in conseguenza alle pugnalate di Yischai Schlissel, ebreo ortodosso, che appena uscito di prigione ha pensato di attaccare i manifestanti (ne ha colpiti sei) al Gay Pride di Gerusalemme.

Tra i miei sedici anni di allora e quelli di oggi sfortunati di Shira Banki c’è un abisso, una differenza epocale, che diventa un percorso necessario di apprendimento, di crescita, che non meritava un’interruzione così maledetta nella vita di quella ragazza.

Shira semplicemente partecipava al Gay Pride di Gerusalemme, con altri coetanei e non, manifestava per chiedere parità di diritti per tutte quelle persone che ancora non ne hanno. Io, al massimo, nei miei impreparati sedici anni, provavo quell’inutile e cattivo imbarazzo da gay represso quando vedevo al telegiornale le immagini di qualche pride. Eravamo agli antipodi io e Shira, tanto quanto siamo vicini adesso.

Nei suoi sedici anni Shira aveva capito tutto e, per questo, oggi ci insegna tutto. Aveva deciso di essere lì per dire che i diritti fossero gli stessi per tutti, e chissà quanti altri suoi coetanei, con lo stesso spirito, con lo stesso impegno libero, erano lì con lei e sono oggi salvi , mentre lei è purtroppo agli onori della cronaca per l’irrazionale e ingiustificabile delitto di un pazzo fanatico. Tutti gli “Shira” di oggi sono piccoli germogli da conservare, magnifici esempi a cui ispirarsi, grandi capolavori da osservare e dai quali tutti dobbiamo prendere lezione.

Penso che sia magnifico avere in testa un pensiero giusto a quell’età. E’ in quei momenti che si è maggiormente indipendenti, puri, sognatori e liberi, scevri da ogni negativa influenza a cui durante l’età adulta ci abituiamo, anche solo per osmosi col vicino di banco.

Io, ad esempio, il mio pensiero dovevo ancora trovarlo e capirlo e il rammarico di non avere avuto allora la consapevolezza e il coraggio di Shira e dei suoi coetanei, mi crea oggi un dispiacere doppio. Per questo il ragazzino che ero chiede scusa a Shira. Se fossi uscito di casa anche io, forse adesso saremmo un pochino più avanti, o forse no, non lo so; ma mi piace pensare così.

Non so nemmeno quale orientamento sessuale avesse Shira, non m’importa nulla. Quello che conta è che lei a sedici anni era lì anche per me. E la sua fine è una tragedia che pesa infinite volte sulla società intera e sulla politica, che non si assume la responsabilità definitiva di ritenere quei sedicenni di oggi il futuro di domani, e relegare, senza ulteriore appello, l’integralismo di un “nuovo” Medioevo ad essere il cancro da estirpare in questo mondo.

Cancro che arriva ad ammazzare, a colpire alle spalle degli adolescenti pacifici in virtù di una fede, di una “verità”, che diventa maledetta nel momento in cui non concede alcun margine di confronto vero e profondo, non permette alcuna mediazione con nessuna istanza o situazione che sia differente da quella che la fede gli suggerisce. In quei casi, ma anche in molte situazioni di entità più lieve, la fede, qualsiasi essa sia, travalica nel fanatismo e nella colpa più tremenda, rinunciando alla migliore delle opportunità che l’esperienza di vita può dare all’uomo: quella di riconoscere altri modi di pensare, vivere, amare, essere, alla stregua del proprio. Opportunità che io a sedici anni non pensavo nemmeno di avere e a cui, invece, Shira non aveva rinunciato.

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