Calcio
Se “vediamo il razzismo dappertutto” è perché molto spesso il razzismo c’è
Martedì sera uno scontro verbale fra Romelu Lukaku e Zlatan Ibrahimović, durante il derby di Milano valido per la Coppa Italia, ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica italiana. In un momento di forte nervosismo, i due giocatori hanno scambiato frasi poco gentili, con Ibrahimović che ha intimato all’avversario di tornare a “fare riti voodoo con sua madre”, alludendo a una vecchia e falsa storia, inventata per screditare proprio Lukaku, belga di origine congolese, tramite il pregiudizio che vorrebbe le popolazioni africane dedite a pratiche religiose viste come superstiziose. L’attaccante dell’Inter avrebbe invece risposto chiamando in causa le parenti più prossime di Ibrahimović, con una frase di probabile connotato sessista.
Insomma, un brutto fatto, dopo il quale lo stesso Ibrahimović, seguito dall’ufficio stampa del Milan e da molti commentatori, si è affrettato a derubricare l’episodio a uno scontro personale con Lukaku, cercando di allontanare l’ombra del razzismo. Molti hanno ricordato poi l’impegno dello stesso calciatore svedese nella lotta contro ogni discriminazione, ribadendo come anche lui sia stato vittima di atteggiamenti razzisti in passato.
Il fatto che Ibrahimović si sia speso nella lotta contro il razzismo, ne sia stato vittima o abbia amici di origini e orientamenti diversi non lo rende certo immune al poter avere comportamenti razzisti. Non esistono persone “assolutamente razziste” e persone “assolutamente non razziste”, ma esistono discorsi e comportamenti razzisti, in cui può incappare ognuno di noi, senza averne né la consapevolezza né l’intenzione.
Quindi, se qualcuno vede del razzismo nella frase di Ibrahimović non afferma che l’attaccante svedese sia razzista ma che, per provocare Lukaku, egli abbia utilizzato un discorso di stampo discriminatorio. E l’elemento razzista, nel discorso di Ibrahimović, non è frutto della mente dell’attaccante svedese, ma di quella di Farhad Moshiri, colui che ha inventato la storiella che vorrebbe Lukaku essere un praticante di riti voodoo.
Moshiri è un dirigente dell’Everton, che nel 2017 non era riuscito a convincere il calciatore belga a firmare un contratto con la sua squadra. Dovendo giustificare il fallimento dell’operazione davanti ai soci, ha inventato il fatto che Lukaku avesse rifiutato il rinnovo del contratto dopo un pellegrinaggio della madre in Africa, che avrebbe avuto a che fare con “una sorta di voodoo”.
Il fatto che l’elemento razzista sia stato introdotto nel discorso da un’altra persona non scagiona però chi riprende e utilizza quello stesso discorso, come ha fatto Ibrahimović. Riportando la cosa su un piano più generico, ripetere una barzelletta a sfondo razzista inventata da altri è anch’esso razzista? Direi di sì.
Questo episodio non fa ovviamente di Ibrahimovic un razzista né svela chissà quale lato della sua personalità, ma richiede che lui stesso, invece di affermare banalmente di essere in prima linea nella lotta contro ogni discriminazione, si accorga di avere commesso un errore, utilizzando inconsapevolmente un discorso razzista.
Ovviamente, il fatto non giustifica nemmeno la reazione di Lukaku, che ha immediatamente cercato un confronto fisico con Ibrahimović. Secondo le ricostruzioni, nel tentativo di rispondere al colpo basso dell’avversario, l’attaccante belga avrebbe utilizzato una frase a sfondo sessista. Anche in questo caso, il fatto non renderebbe Lukaku automaticamente un misogino, ma richiederebbe che lui, come Ibrahimović, comprendesse la violenza delle sue parole.
Ciò che emerge è che uno scambio di insulti fra due calciatori nasconde due discorsi potenzialmente violenti, che gli stessi utilizzano inconsapevolmente. Una non consapevolezza che non indebolisce, però, la violenza di quelle parole. E il discorso sopra queste parole è complesso.
Il discorso razzista è principalmente un discorso volto a degradare qualcuno in base a una presunta superiorità di chi offende rispetto a chi è offeso, sulla base di una gerarchia arbitraria imposta da chi si trova in posizione di forza. Fino a qualche decennio fa, il discorso razzista si presentava nella maggior parte dei casi in maniera esplicita, chiara e semplice, attraverso gesti, epiteti e termini codificati, che oggi riconosciamo molto facilmente, tanto che alcuni di essi sono arrivati ad essere banditi legalmente.
Oggi, un discorso razzista di quel tipo, seppur nemmeno lontanamente estirpato, non è accettabile nella maggior parte dei contesti comunicativi della nostra società e l’utilizzo dello stesso prevede una presa di distanza, a volte sincera e a volte ipocrita, di una grande parte della popolazione. In questo contesto, il discorso razzista cambia e, in un certo senso, si evolve, diventando più complesso e allusivo, meno percettibile all’immediata sensibilità comune, più sfumato, ma non cambia la propria sostanza di fondo. L’elemento razzista diventa sfuggente: è necessario ricorrere a ragionamenti più complessi per coglierlo e a discorsi più complessi per spiegarlo. Ragionamenti e discorsi che alcuni non vogliono o non sono in grado di comprendere. Parte della forza del razzismo è oggi in questo punto, nella sua sfuggente e solo parziale accessibilità.
Per poterlo contrastare, è necessario educare alla comprensione dei testi e dei discorsi, in modo che tutti possano giungere a cogliere autonomamente le sfumature violente che si possono insinuare in parole e frasi all’apparenza innocue. Si tratta di un obiettivo molto difficile da raggiungere, perché prevede una profonda conoscenza della lingua e del linguaggio, oltre che una capacità di comprendere il significato sia letterale che secondario dei testi: elementi rari anche all’interno di popolazioni molto alfabetizzate.
Tornando ai fatti di martedì, si può dire che l’errore di Ibrahimović sia stato un errore di comprensione del testo. L’attaccante svedese ha visto nella storiella inventata da Moshiri sui riti voodoo di Lukaku solo una notizia che avrebbe potuto utilizzare per provocare l’avversario, senza cogliere il connotato razzista del pregiudizio su cui la stessa è stata costruita. Il fatto di averla soltanto usata, pur nell’inconsapevolezza del suo portato, non comporta che il discorso di Ibrahimović non sia stato a sua volta razzista. Proprio come il fatto di averla utilizzata non fa di Ibrahimović una persona razzista nel complesso. L’attaccante del Milan semplicemente non ha compreso un testo nel quale si celava un discorso discriminatorio; lo ha utilizzato, commettendo un errore che avrebbe potuto commettere e che potrà commettere ognuno di noi, pur inconsapevolmente e pur volendo coscientemente rifuggire da ogni istanza razzista.
In questo senso, il fatto che Paul Pogba, centrocampista francese di origini guineane, abbia dichiarato che Ibrahimović non possa essere razzista, perché suo grande amico, non significa nulla, se non che allo stesso Pogba non è chiaro che anche una persona perfettamente e coscientemente antirazzista possa incappare in un discorso razzista.
La violenta reazione di Lukaku, che i telecronisti della RAI non ricordavano mai così arrabbiato, ha portato, in base a quanto ricostruito dai media, anche lui, altrettanto inconsapevolmente, a servirsi di un discorso con un probabile sfondo sessista. Un discorso che condivide con il razzismo molti elementi, come la violenza e la volontà di degradare l’altro per esercitare un potere. Un altro discorso sfuggente, tanto più perché talmente diffuso e consolidato da passare inosservato in frasi, comportamenti e gesti anche di persone che vorrebbero a tutti i costi evitarlo ed eliminarlo. Un discorso tanto sfuggente e inconsapevole quanto grave.
Non riusciamo spesso a cogliere queste sfumature. Non riusciamo spesso a vedere la potenziale violenza di questi discorsi proprio perché non abbiamo un’educazione linguistica diffusa sufficiente a cogliere il pieno significato delle parole e delle frasi che leggiamo, ascoltiamo, scriviamo e pronunciamo. E allora affermiamo che Ibrahimovic e Lukaku non hanno sbagliato perché si sono serviti di discorsi razzisti e sessisti, ma perché hanno litigato in prima serata, arrivando quasi allo scontro fisico, osservati da tanti bambini che guardano a loro come ai propri idoli e modelli. Ma i calciatori giocano a calcio e non hanno compiti educativi nei confronti dei bambini che li guardano. È compito nostro, invece, educare quegli stessi bambini a comprendere la lingua, il linguaggio e i significati che questi portano, perché possano da soli osservare e riconoscere discorsi e comportamenti per i quali non c’è spazio in una società civile e democratica.
Foto: notizie.it
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