Diritti
Se una lettera ti rivolta la vita
Björn LARSSON, “La lettera di Gertrud”, Iperborea pp. 465, Euro 19,50.
L’identità è un rovello, è un rebus l’identità, in ogni sua variante: etnica, culturale, sociale, politica, individuale, psicologica. Un rebus in cui forse è meglio non cacciarsi se si vuol vivere sereni, una trappola da evitare, un cattivo pensiero da allontanare. Meglio non pensarci, subirla senza troppe domande se la si incontra e proprio non si riesce cambiar strada. Forse è meglio ribellarsi, rifiutarla radicalmente come suggeriscono alcuni antropologi. Ottimo sarebbe trovare delle mediazioni positive, poterla gestire, acquisirla nella sua essenza plurale, metterla in relazione con quella degli altri e dei diversi da noi. Ma non sempre tutto ciò è possibile e spesso ci si scontra con concezioni opposte d’identità: paura, chiusura, esclusione, difesa, osservanza dei legami di sangue, rispetto sacro della proprietà territoriale, confini e tradizioni ancestrali da difendere. Fin troppo ovvio ribadire l’attualità bruciante di queste tematiche. È quanto vien fatto di pensare in relazione a “La Lettera di Gertrud”, l’ultimo corposo romanzo dello scrittore svedese (ma molto conosciuto e apprezzato anche in Italia) Björn Larsson, pubblicato di recente da Iperborea (pp. 465, euro 19,50) con la traduzione di Katia De Marco. Un romanzo, come spiega l’autore, tratto da una storia vera: la vicenda Martin Brenner, «l’ebreo che non voleva essere ebreo». Una storia di grande e attualissimo interesse, strutturata in tre parti (la terza delle quali forse un po’ pleonastica e meno convincente nell’economia generale del libro), scritta con buon ritmo narrativo e capace di avvincere il lettore con l’intensità e la tipicità delle situazioni che costruisce e attraversa. Brenner, genetista, scienziato di valore, capace dirigente d’azienda, benestante, vive con la sua famiglia felice (moglie, anche lei una professionista affermata e innamorata, e figlia adolescente, adorata e a cui regalare un bellissimo cavallo), bella casa in una (qualunque) ricca e ordinata città del nord Europa. Un menage regolare e positivo, sereno, magari non particolarmente interessante ma solido e sicuramente foriero di future, meritate soddisfazioni. Una situazione che viene interrotta dalla morte della madre di Martin, Maria, che gli lascia la casa con tutto quel che c’è dentro (ovviamente Martin la venderà subito), ma soprattutto gli fa avere, tramite un avvocato di fiducia, una lettera da leggere appena post mortem. In questa lettera gli confessa d’essere ebrea, di chiamarsi Gertrud, d’essere sopravvissuta agli orrori dei lager nazisti, gli svela anche che l’uomo con cui lei ha vissuto con la sua identità non ebraica non era suo padre, mentre il suo vero padre era un ebreo: insomma gli rivela che anche lui, solo per il fatto d’esser figlio d’una ebrea, è ebreo. Questa sarebbe la sua vera identità. Si tratta di una rivelazione che, per quanto capace di turbarlo profondamente, può ancora restare segreta e quindi non impegnarlo pubblicamente: Gertrud non ha voluto che suo figlio fosse circonciso secondo tradizione ed ha lasciato totalmente al suo libero arbitrio la decisione di accettare o meno l’identità ebraica. Da questo momento inizia per Brenner una profonda e liberante vicenda di acquisizione di consapevolezza che va ben oltre il dono di protezione e libertà riservatogli dalla madre. Squarci poco comprensibili del suo passato di bambino gli si illuminano improvvisamente, comincia a comprendere i margini esterni della sua biografia: la stranezza mista ad apprensione della madre, il silenzio sul suo vero padre, quella valigia chiusa nascosta in un angolo oscuro della casa. Comincia inoltre a considerare con più attenzione l’esperienza umana del suo collega di lavoro e amico Samuel; comincia capire perché il presidente della azienda per cui lavora, un tale Rosenbaun, reputa imprescindibili e centrali gli studi di genetica; si espone pubblicamente nella lotta contro l’antisemitismo e comincia a cercare, leggere, studiare le opere degli scrittori ebrei provando a comprenderne la spiritualità e, appunto, ciò che di essi può davvero definirsi identitario. Ecco il rovello dell’identità, la ricerca di che cosa sia imprescindibile per definire razionalmente l’identità ebraica. Un percorso che Martin percorre con coraggio, con la giusta attenzione alla vita degli altri che ama e che lo amano, degli altri che da lui dipendono o che gli sono vicini, degli altri che sono altri e basta: la giusta attenzione insomma a quella alterità che non chiede d’essere né compresa, né tantomeno resa omogenea ad una, presunta normale, identità. Un percorso che non riesce a controllare del tutto (come del resto accade sempre nella vita e spesso anzi con una prevalenza di ciò che inconsciamente si desidera) e che, alla fine, gli presenta un conto salatissimo in termini umani, familiari, professionali: Martin perderà tutto, ma non tenterà scorciatoie consolatorie, dimostrerà coi fatti di non aver paura della sua possibile identità ebraica, saprà battersi con forza e senso di giustizia contro l’antisemitismo sempre risorgente e contro ogni forma di razzismo, contro la viltà e la violenza che inevitabilmente connotano questi fenomeni, saprà porsi con libertà e attenzione critica persino di fronte alle scelte politiche di Israele, ma alla fine non accetterà di diventare ebreo. Non lo era stato fino ad allora e non ritiene affatto che possano esservi motivi “genetici” per esserlo prima e al di fuori di una scelta di piena e totale libertà. Una scelta di libertà, identica per tutti, per gli ebrei, per i rom, per i curdi e per gli armeni, ma anche per qualunque altro popolo o segmento sociale o religioso minoritario o maggioritario: veniamo al mondo uomini e donne e basta. Tutto il resto viene dopo e dovremmo poterlo non subire ma scegliere in piena e pacifica libertà.
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