Calcio

Se il colore della pelle conta più del nome, di solito è razzismo

11 Dicembre 2020

Indicare una persona per mezzo del colore della pelle invece che con il suo nome è un atteggiamento fortemente sospettabile d’esser razzista, che se ne abbia o meno consapevolezza. Per considerare come tale un certo comportamento, infatti, non serve che venga espresso apertamente un giudizio, è sufficiente che quel comportamento sia razzista nei fatti.

E proprio questo, almeno secondo i calciatori in campo, è ciò che è capitato durante la partita di calcio Psg-Basaksehir quando un membro dello staff arbitrale, per indicare al direttore di gara il viceallenatore della squadra turca Pierre Weibo, lo ha indicato come «negru». A quel punto, Demba Ba – calciatore del Basaksehir – gli ha chiesto ripetutamente perché avesse detto proprio «this black guy» mentre per indicare altri – ed è questo il passaggio rivelatore – si era limitato a dire «this guy» e non «this white guy». La risposta sul campo è stata che in Romania – nazione di origine della compagine arbitrale – «negru» significa «nero». Dunque, nell’uso di quella parola non c’era nessuna intenzione razzista.

I calciatori però se ne sono tornati negli spogliatoi rifiutandosi di riprendere il gioco. Alla fine, la partita è stata interrotta e la Uefa ha aperto una inchiesta. E adesso c’è anche chi sostiene che a iniziare la schermaglia razzista fossero stati gli stessi calciatori turchi. Insomma, per capire cosa sia davvero accaduto si dovrà attendere la conclusione della inchiesta. Ma, al di là del fatto specifico, questo episodio sembra interessante soprattutto per il genere di commenti che ha innescato.

Il fatto è che sull’episodio, al di là della riprovazione rituale, si è sviluppato anche un tipo di analisi che, a forza di collocare altri argomenti al centro della scena, ha rivelato una certa incapacità di mettersi nei panni delle vittime, cosa che spesso capita anche di fronte alla violenza sulle donne.

Eppure, sarebbe bastato mettersi nei panni di chi quel «negru» se l’è sentito sbattere in faccia per capire che, se anche «negru» non contiene di per sé – e quindi nella consapevolezza di chi lo ha pronunciato – una connotazione razzista, ciò non esclude che un certo uso di quella parola si possa invece connotare come oggettivamente razzista.

Il razzismo, infatti, non sta soltanto nel significato più o meno offensivo che una parola ha di per sé, secondo il dizionario, né sta – in questo particolare episodio – in un asserito fraintendimento causato dall’assonanza tra il «negru» della lingua rumena e l’impronunciabile N-word nordamericana. Il razzismo – visto con gli occhi della vittima – può stare anche altrove, e banalmente proprio nella scelta del colore della pelle, invece  del nome o del ruolo svolto in campo, per identificare una persona all’interno di un campo di calcio, pur senza intenzione di esprimere un punto di vista razzista.

Detto altrimenti, il collaboratore dell’arbitro conosceva nome e ruolo del viceallenatore turco ma lo ha indicato come «negru». Non la N-word, certo, ma semplicemente come un nero. E allora torniamo alla domanda posta da Demba Ba: Perché «this black guy» e non anche «this white guy»? E la risposta è che a quanto pare la pelle bianca non è considerata una condizione sufficiente per identificare una persona, forse perché l’avere la pelle bianca è considerata ancora da molti come una condizione normale, mentre avere la pelle di qualsiasi altro colore è ancora percepito come un segno particolare, quando va bene, e per questo utile per identificare una persona, anche in una situazione dove bianchi e neri sono molti e mescolati, come appunto su un campo di calcio.

C’è una buona possibilità che ciò accada perché il colore della pelle è ciò che soprattutto e prima di tutto vede chi indica una persona come «this black guy», senza che gli passi per la testa di fare altrettanto con chi ha la pelle bianca.

Ciò significa che chi ha la pelle bianca è considerato come una persona con un nome e una qualifica che la rende identificabile in campo con quel nome e quella qualifica. Chi invece ha la pelle di un altro colore è quel colore – in questo caso il nero, «this black guy» – prima ancora che una persona, un viceallenatore o un nome.

Non c’è intenzione consapevolmente razzista nel singolo individuo, c’è però una condizione di diffuso e strisciante razzismo che attraversa la società in modo così radicato e pervasivo che è tuttora non facilmente riconoscibile e alla quale a volte si aderisce in modo inconsapevole. Per questo, ancora oggi purtroppo può capitare a tutti. E per questo si dovrebbe a maggior ragione farci attenzione quando capita.

Manifestare il proprio fastidio per chi ne resta sconcertato, introdurre argomenti pur interessanti ma che finiscono per spostare altrove l’attenzione o, peggio, che diminuiscono la percezione di certi comportamenti come razzisti, divertirsi col solito, esausto épater le bourgeois, son tutti atteggiamenti che, nel migliore dei casi, somigliano al classico io non sono razzista, ma.

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