Diritti
Regeni, così l’Egitto sta ostacolando la ricerca della verità
Mancano pochi giorni all’arrivo al Cairo della delegazione della procura di Roma per il recupero dei video che potrebbero contenere gli ultimi istanti di libertà di Giulio Regeni. E intanto l’ONG che assiste la famiglia Regeni in Egitto – la Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf) – è posta sotto fortissima pressione.
Nella notte tra il 10 e l’11 maggio, la polizia ha fatto irruzione in casa di Mohamed Lotfy, il direttore dell’ONG, e ha prelevato lui, sua moglie Amal Fathy e il loro figlio di 3 anni. Mentre Lotfy e il bambino sono stati rilasciati, Amal Fathy è stata posta in custodia preventiva per 15 giorni. Le accuse? Uso distorto dei social media, diffusione di notizie false e attentato alla sicurezza dello Stato. Per questi capi d’accusa, Fathy rischia l’ergastolo, e persino la pena di morte.
La Ecrf ha un ruolo importante nelle indagini sull’omicidio Regeni. «Ha aiutato a individuare molte informazioni utili alle indagini – spiega a Gli Stati Generali il portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury –, e fornito consulenza legale agli avvocati italiani della famiglia Regeni». Difficile non pensare a un’ennesima intimidazione nei confronti dell’ONG, in vista dell’arrivo della delegazione italiana al Cairo.
Lo scorso settembre (quattro giorni prima dell’insediamento del nuovo ambasciatore italiano al Cairo, Giampaolo Cantini) Ibrahim Metwally, avvocato per i diritti umani affiliato all’Ecfr e co-fondatore del gruppo “Famiglie degli scomparsi in Egitto”, è stato fermato mentre era in procinto di imbarcarsi su un volo diretto a Ginevra per partecipare al gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate e involontarie.
A Metwally è stata imposta una prima detenzione di 15 giorni, poi prolungata a più riprese. Accusato della creazione e direzione di un gruppo illegale, cospirazione con soggetti stranieri per danneggiare la sicurezza nazionale, e pubblicazione di notizie false, non è stato ancora rimesso in libertà. E in un incontro con i suoi legali pochi giorni dopo l’arresto, l’uomo ha raccontato di essere stato torturato con percosse e scosse elettriche.
Nel caso di Amal Fathy, spiega Noury, «ciò che portato al suo arresto è un video di 12 minuti pubblicato su Facebook il 9 maggio in cui ha criticato il disinteresse del governo verso i diritti delle donne in particolare, e verso i diritti umani in generale. Dichiarazioni che hanno scatenato una campagna denigratoria, sia da parte dei media vicini al governo che sui social media. Ha ricevuto minacce, e poi c’è stata l’irruzione in piena notte a casa sua».
Essere prelevati nel cuore della notte e trascinati in una stazione di polizia, nell’Egitto del presidente Al Sisi, è sempre più spesso un biglietto di sola andata per un inferno di incertezza, maltrattamenti e spesso tortura. La sola consolazione per il marito di Amal Fathy, Mohamed Lotfy, è che sa dov’è tenuta in custodia la moglie, almeno per il momento. Una cosa non scontata.
«Le sparizioni forzate stanno diventando una pratica ampiamente utilizzata, lo strumento principale per terrorizzare la popolazione e scoraggiare ogni tipo di dissenso e di attività politica o sociale – nota da Bruxelles Leslie Piquemal, responsabile dell’advocacy presso l’Unione Europea del Cairo institute for human rights studies –. Avvenivano anche sotto Mubarak e durante i governi che ci sono stati tra lui e Al Sisi. Ma mai, neanche lontanamente, a questi livelli».
La frequenza delle sparizioni forzate si è impennata da quando Magdy Abdel Ghaffar è stato nominato ministro degli Interni, nella primavera del 2015, spiega Piquemal. «In pratica accade che le forze di sicurezza, soprattutto la Sicurezza nazionale, irrompono in casa di una persona nel cuore della notte e la prelevano. Se non trovano chi cercano si portano via il padre, un fratello o un figlio. E poi quella persona sparisce».
Sparisce nel senso che nessuno informa i familiari su dove la stanno portando, se è in stato di arresto o meno, né di cosa è accusata. Non solo: «una volta che l’hanno portata via è impossibile per i familiari o i legali di quella persona scoprire dov’è. Tutti, nelle stazioni di polizia o nelle prigioni, negheranno di averla in custodia».
A volte, continua Piquemal, non si è certi che si tratti di una sparizione forzata. Sono i casi in cui una persona sparisce mentre va al lavoro, senza testimoni che la vedano prelevare dalla polizia, o quando la persona scomparsa non era un attivista, un giornalista o non aveva mai parlato di politica né aveva mai criticato il governo. «Ma quando alla fine si ritrova quella persona morta o in arresto da qualche parte, allora non ci sono più dubbi, e sappiamo che si è trattato di una sparizione forzata. Di alcuni non si sa mai più niente».
Secondo l’Ecrf, fra gennaio e agosto 2017 almeno 165 persone sono scomparse per mano delle forze di sicurezza. Ma nessuno sa esattamente in quanti abbiano subìto questa pratica così diffusa sotto il regime di Al Sisi. «C’è sempre più terrore all’idea di denunciare le scomparse alle ONG che se ne occupano» aggiunge Piquemal. E del resto, difendere i diritti umani in Egitto, oggi, è un lavoro ad altissimo rischio. «Nelle carceri c’erano già molti attivisti, gente arrestata mentre partecipava a manifestazioni del tutto pacifiche. Ma ora sempre più persone che si occupano di diritti umani finiscono dietro le sbarre». Con accuse per cui, a volte, rischiano l’ergastolo o la pena di morte.
Nonostante tutto, in Egitto, sono ancora tantissime le persone che continuano a difendere i diritti umani e a impegnarsi in attività di dissenso. Anche grazie alle nuove tecnologie. Ad esempio Tor, l’open software che permette di comunicare in internet sotto anonimato. «Negli ultimi dieci anni la tecnologia ha giocato un ruolo importantissimo in Egitto perché grazie ad essa la gente è stata libera di organizzarsi, mobilitarsi, esprimere opinioni e condividere informazioni – dice Ramy Raoof, tecnologo senior dell’Egyptian initiative for personal rights e membro del CdA di The Tor Project –. E dal momento che, a differenza di altri canali di comunicazione, le autorità non possono controllare internet al 100%, ne sono ossessionate». Basti pensare che in Egitto, i poliziotti sfruttano le app per incontri gay per scovare e arrestare gli omosessuali.
Raoof concorda sul fatto che sotto il regime di Al Sisi «si stanno osservando livelli senza precedenti di abusi e violazioni dei diritti. E poiché Tor garantisce agli utenti elevati livelli di privacy e sicurezza, e permette di raggiungere siti o contenuti altrimenti inaccessibili perché censurati, le autorità egiziane lo hanno bloccato varie volte».
Amal Fathy ha commesso “l’errore” di esprimere pubblicamente la sua indignazione verso il governo e lo stato egiziano. Purtroppo non ci sono prove che il suo arresto sia un’intimidazione diretta al consulente legale egiziano della famiglia Regeni, in un momento delicatissimo delle indagini. Quel che è certo però, è che sua moglie è incarcerata in un paese dove centinaia di persone sono tenute in galera per anni senza processo, vengono brutalmente torturate, e spesso fatte sparire.
«Nella logica di un regime autoritario l’obiettivo di un’azione simile può essere quello di mostrare che non esiste alcun timore e nessuna riverenza nei confronti dell’altro paese – dice Noury –. Mi auguro che l’ambasciata italiana in Egitto prenda presto una posizione chiara».
C’è da dire che lo scorso novembre, in una nota congiunta, gli ambasciatori di Italia, Germania, Regno Unito, Canada e Paesi Bassi avevano espresso “profonda preoccupazione” per la detenzione del sopraccitato avvocato per i diritti umani Ibrahim Metwally. Il Cairo aveva risposto convocando gli ambasciatori ed esprimendo “forte indignazione” per ciò che secondo il ministero degli Esteri egiziano costituiva “un’evidente e inaccettabile ingerenza negli affari interni” del paese nordafricano.
Come è già stato scritto sopra, Metwally è ancora in prigione, in condizioni – ha detto il suo legale – veramente disumane. Ora si teme la stessa sorte per Amal Fathy. Secondo Piquemal c’è bisogno che l’Italia e altri paesi facciano pressioni all’Egitto per il suo rilascio, anche con l’aiuto dei cittadini. «A volte funziona ma non ci sono garanzie. Penso che molto dipenda anche dalla volontà politica della comunità internazionale di perorare questo e molti altri casi di attivisti assolutamente non violenti che si trovano dietro le sbarre».
La legale italiana della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, sottolinea come l’arresto di Fathy avvenga a pochi giorni dall’arrivo al Cairo della delegazione della Procura di Roma guidata dal sostituto procuratore Coaliocco, per visionare le immagini delle telecamere di videosorveglianza della metro. Che potrebbero contenere i momenti in cui Giulio viene sequestrato.
“È una coincidenza temporale che ci fa pensare di essere molto, molto vicini alla verità, cosa non gradita – ha detto Ballerini a Rai News 24 –. Se è così, noi siamo anche disposti a rinunciare a quel video, però che Amal venga immediatamente rimessa in libertà e lasciata incolume”.
Per il momento, di Fathy non si hanno ulteriori notizie. Sulle relazioni italo-egiziane Noury nota che «sarebbe bene che l’Italia coltivasse rapporti con un paese al quale può dare raccomandazioni e suggerimenti nel campo dei diritti umani. Ma è evidente che ci sono delle ragioni prioritarie, di natura economica e commerciale, che prevalgono sul resto. Altrimenti le cose sarebbero andate diversamente in questi ultimi due anni e mezzo».
Immagine in copertina: Il Cairo, V. Saini
Devi fare login per commentare
Login