Diritti
Razzismi d’Italia
La cronaca politica degli ultimi giorni è tornata ad occuparsi del razzismo in Italia. Lo scorso 2 marzo più di 200 mila persone hanno manifestato pacificamente per le vie di Milano aderendo all’iniziativa “People-Prima le persone”. Il manifesto della mobilitazione esprimeva chiaramente la sua vocazione antirazzista e antifascista, ossia la convinzione che le differenze (di sesso, etnia, credo o condizione sociale) siano un arricchimento sociale e non l’occasione per ghettizzare ed emarginare questa o quella minoranza. Un messaggio potente, diffuso e amplificato dalla società civile e dal terzo settore. Non sono mancate critiche e reazioni scomposte. Sorprende, forse, che la più virulenta sia arrivata, tramite il suo blog, da Beppe Grillo. Secondo il comico genovese “chiunque abbia un minimo di buon senso non vede alcun razzismo, ma soltanto un crescente egoismo sociale”, derubricando l’evento a “cabaret invece che lotta.”
Al netto delle opinioni divergenti sull’emergenza razzismo, esistono degli indicatori che possono quantificarne la portata. I dati confermano che effettivamente qualcosa non funziona. Già nel 2012 l’ISTAT, alla voce “Stranieri residenti e condizioni di vita”, registrava decine di migliaia di eventi discriminatori dichiarati, concentrati prevalentemente nella sfera lavorativa. Qualche anno più tardi, nel 2017, la situazione non era migliorata. Nella relazione al Parlamento dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) si contavano 3.909 segnalazioni di discriminazioni gestite dall’Ufficio, quasi mille in più dell’anno precedente. Di queste l’82,9% si riconducono a una base etnico-razziale, tra le quali gli insiemi più significativi riguardano il colore della pelle (32,5%), seguito dai casi in cui la vittima è un profugo (22,9%) e il fatto che fosse straniero (19,4%). L’incremento di tensioni generalizzate rivolte verso persone ritenute “diverse” trovava conferma da un dato ulteriore: delle segnalazioni lavorate dall’UNAR più del 58% hanno riguardato l’ambito “vita pubblica”, e specificamente il contesto “spazi pubblici”, con un incremento superiore al 50% se raffrontato al 2016. Il trend è stato confermato anche dall’OSCAD (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori), organo istituito presso il Ministero dell’Interno, che sempre nel 2017 ha registrato 1.048 reati d’odio. I crimini con movente razziale hanno subito un’impennata del 42% rispetto al 2016; addirittura del 122% se confrontati con l’anno 2013. Né l’anno appena trascorso può dirsi esente da andamenti negativi: i dati raccolti da Lunaria contano nel periodo gennaio-settembre 488 episodi di violenza o discriminazione razzista, con un picco nelle settimane roventi di campagna elettorale. La fotografia è quella di un paese, l’Italia, nel quale gli episodi di razzismo sono sempre più frequenti. Cifre impietose spalmate su un arco temporale che va oltre la contingenza politica e governativa. Il timore è che il razzismo sia un fattore ben più radicato nella società e non un semplice sbandamento passeggero.
A ben vedere il problema dell’Italia col razzismo, e la retorica utilizzata per mascherarlo, ha origini lontane. L’espansionismo coloniale avviato alla fine del XIX° secolo in Africa, che con alterne fortune si è protratto sino al termine del secondo conflitto mondiale, è caratterizzato da una marcata connotazione razzista. Un fatto che, insieme ai crimini commessi dai nostri compatrioti contro i colonizzati, è stato ampiamente rimosso dalla memoria collettiva. Come ricorda la scrittrice Igiaba Scego dalle terre di Eritrea, Somalia, Etiopia e Libia è passato un pezzo di storia d’Italia. Tanti nostri concittadini “che lì sono andati a combattere per l’Italia liberale e poi ci hanno mandato, anni dopo, i nipoti a conquistare un impero per Benito Mussolini.” Una bramosia di conquista sfogata anche sulle donne africane: come merce venivano acquistate e, poco più che bambine, divenivano spose di compagnia. Indro Montanelli, partito volontario in Abissinia nel 1936, si unì ad una ragazzina di 12 anni. Più volte intervistato sul punto, si giustificava col pretesto che “a dodici anni quelle lì sono già donne. […] Scusate, ma in Africa è un’altra cosa.” Del nostro razzismo coloniale si è persa traccia, annacquato dalla propaganda fascista e dagli stereotipi basati sull’etnia e il colore della pelle.
D’altronde l’ideologia fascista ha posto il razzismo tra i propri pilastri. Le leggi razziali promulgate nel 1938 lo dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio. Un intero apparato accademico, scientifico e comunicativo impegnato a giustificarne l’emanazione, con declinazioni talvolta tragicomiche. Come le riproduzioni di personaggi di differenti etnie dell’antico Egitto che gli egizi coloravano “secondo una scala di toni che corrispondeva a una vera e propria classificazione di razza: rosso per gli egiziani, giallo per gli asiatici, nero per gli africani e bianco per gli uomini del settentrione.” L’evidente intento dello stratagemma richiamato dalla professoressa Luisa Bertolini era ammantare il razzismo di regime con una inoppugnabile genesi storica.
Terminato il conflitto era necessario emendare la colpa e l’ignominia dell’essersi macchiati delle più efferate violazioni dei diritti poste su base razziale nella storia dell’umanità. Ecco perché il legislatore repubblicano ha approvato sin da subito, e poi nel corso dei decenni, differenti norme volte a contrastare il razzismo nel paese. Il fondamento sta nell’articolo 3 della nostra Costituzione che sancisce l’uguaglianza tra tutti i cittadini senza alcuna distinzione su base etnico razziale. Nel 1975 fu la volta della cosiddetta “Legge Reale”, che introdusse nel nostro ordinamento le indicazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (detta anche Convenzione di New York) ratificata nel 1966. L’impegno per l’Italia, quale Stato firmatario, è eliminare ogni forma di discriminazione con l’utilizzo degli strumenti e delle iniziative più idonee. Per conseguire l’obiettivo si sono succeduti differenti interventi parlamentari. Quello più organico in materia fu senza dubbio la “Legge Mancino” del 1993. Da ultimo è obbligatorio citare gli interventi di natura penale del marzo 2018 con la previsione del delitto di “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa”. Il potere politico e giudiziario non è disarmato contro il razzismo. La legge, insomma, punisce il razzismo.
La retorica sovranista e nazionalista non ha tramutato gli italiani in razzisti. Essa ha, piuttosto, incontrato un terreno già fertile nel quale ingrossarsi e proliferare. Come viene giustamente analizzato nella relazione di Lunaria già citata è il clima sociale e politico del paese a rendere gli episodi di razzismo, violenza e discriminazione un tema sensibile. Un razzismo che non è improvvisamente sbocciato dalle urne lo scorso 4 marzo ma risale a tempi ben più lontani, e ha gravi conseguenze sulle persone che lo subiscono.
Ecco che una prima iniziativa da attuare per arginare il fenomeno è porre un freno ai discorsi di politici e media che incitano e fomentano l’odio razziale. La Commissione per l’eliminazione delle discriminazioni razziali ha rilevato che troppo spesso i dibattiti pubblici sono infarciti di stigmatizzazioni e stereotipi negativi nei confronti di migranti, fedeli musulmani e rom. I social network fungono da cassa di risonanza incontrollata e senza filtri. Le proposte suggerite riguardano la perseguibilità a tutti i livelli, individuale e collettiva, per coloro i quali inneggiano alla superiorità razziale (pensiamo all’effetto dirompente che avrebbe il venir meno dell’immunità parlamentare per deputati e senatori sugli scudi al grido “Prima gli italiani”); una condanna inequivocabile ai più alti livelli politici dell’odio razziale e della sua diffusione, promuovendo al contempo azioni volte a favorire una cultura di tolleranza e rispetto; assicurare a chi è stato vittima di discorsi d’odio razziale adeguato ristoro; incoraggiare i media pubblici e privati ad adottare codici di etica professionale che vietino qualsivoglia utilizzo di stereotipi o riferimenti non necessari a etnia, religione ed altre classificazioni utili solo a montare l’intolleranza. Si tratterebbe di primi passi significativi per invertire la rotta e non sprofondare nel baratro della cultura del razzismo e della violenza.
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