Diritti
“Piangi per il bimbo che stai per ammazzare”. Abortire nell’Italia del 2021 d.C.
Sono già trentamila le firme raccolte dagli organizzatori della campagna “Libera di abortire”, un’iniziativa promossa da Radicali Italiani e altre associazioni che punta a portare sul tavolo del ministro Roberto Speranza una serie di richieste volte ad abbattere le barriere che rendono l’interruzione volontaria di gravidanza un percorso a ostacoli che costringe molte donne a viaggi della speranza conditi da giudizi, umiliazioni e vessazioni. Perché l’aborto in Italia è legale, ma la piaga dell’obiezione di coscienza lo rende praticamente impossibile da praticare in vaste aree del Paese. Sarebbero infatti almeno quindici gli ospedali italiani in cui, nel 2021 d.C., la percentuale di ginecologi obiettori è del 100%: un numero agghiacciante emerso dall’indagine “Mai Dati” redatta da Chiara Lalli e Sonia Montegiove per l’Associazione Luca Coscioni. Alcune donne, dopo aver firmato, hanno voluto raccontare le loro storie.
Le croci del cimitero Flaminio
L. è una donna di Roma, madre di tre figli. Ha avuto un’interruzione volontaria di gravidanza nel 2011 d.C, quasi 10 anni fa. Durante un controllo ecografia era stato riscontrato che la bambina che portava in grembo era affetta da una grave patologia che la rendeva incompatibile con la vita. «Purtroppo – racconta – quando in Italia una donna decide di abortire, qualunque sia il motivo della sua scelta, le viene puntato il dito contro anche da altre donne. A parte il responsabile del reparto del San Camillo, che è stata una persona umana e squisita, ho ricevuto un trattamento allucinante da altre persone della struttura: le infermiere volevano farmi partorire in stanza davanti agli occhi sbigottiti di un’altra donna che era ricoverata con me. Io ero alla ventiquattresima settimana, quindi il mio stato un vero e proprio parto. Nel momento del travaglio, quando i dolori erano terribili, mi è stata chiusa la porta chiedendomi di non disturbare: sono ferite psicologiche che non andranno mai via».
Ad aggiungersi a quelle ferite, è arrivata, anni dopo, una terribile scoperta: «Un anno fa, proprio in questi giorni, navigando su Facebook mi sono imbattuta in un articolo che parlava delle donne che avevano trovato il loro nome su delle croci in un’area destinata ai feti del Cimitero Flaminio: mi si è gelato subito il sangue perché avevo paura che in mezzo a quelle croci ce ne fosse una col mio nome. Premetto che dopo il parto a me nessuno ha detto nulla su cosa sarebbe stato del feto, mi è stato semplicemente dato un foglio di dimissioni con le prescrizioni dei farmaci da prendere. Per andare a fondo, ho contattato l’associazione Differenza Donne e loro mi hanno girato il contatto dell’ufficio dell’Ama responsabile di queste sepolture. Così, dopo aver dovuto dare le mie generalità per telefono alla faccia della privacy, ho scoperto che la croce era lì, in un campo desolante pieno di croci pendenti o cadute. Per me è stato un terribile shock. Trovo aberrante che una donna non venga messa al corrente di nulla e si ritrovi il suo nome su una croce. Per fortuna, quando la cosa è diventata di dominio pubblico e sono partite le prime azioni legali, quei nomi sono stati rimossi e ora al loro posto ci sono delle croci in metallo con dei codici. Malgrado il fatto abbia riaperto delle ferite, ho deciso di raccontare la mia storia in un post pubblico su Facebook: leggendolo, una mia collega ha scoperto di essere tra quelle croci per un aborto avuto anni prima. Spero che quello che è stato fatto a me, a lei e ad altre donne non si ripeta mai più; che l’Italia esca da questo medioevo».
Le mani sporche di sangue
E se le donne che decidono di abortire subiscono disagi, vessazioni e umiliazioni di ogni tipo, chi sta dall’altra parte e sceglie di aiutarle rischia di subire il medesimo trattamento. È il caso di C., studentessa all’ultimo anno di Ostetrica e patrocinante all’ospedale di Perugia. «Da parte di medici e anestesisti obiettori c’è spesso una totale mancanza di rispetto e di umanità verso le pazienti che devono abortire: ho sentito un anestesista dire “io a questa la morfina non la dò perché dopo una simile barbarie non se la merita” e so che purtroppo è una cosa che avviene spesso. In Umbria il numero di sanitari obiettori di coscienza è altissimo, sono il 60,3%, e se ne trovano sia nelle aziende ospedaliere che sul territorio. Questo porta a episodi di violenza ostetrica e costringe molte donne ad andare a Nottola, in Toscana. In questi anni c’è stato anche un forte aumento dei ginecologi obiettori nei consultori, luoghi in cui non viene data la pillola RU-486 malgrado le ultime linee guida del Ministero della Salute. Molti di loro, oltre a non prescrivere la pillola del giorno dopo, si oppongono alla contraccezione tramite spirale».
I consultori sono strutture frequentate da moltissime adolescenti che potrebbero avere gravidanze indesiderate. Da tempo sono “invasi” dalle associazioni “pro-vita” che lasciano liberamente i loro manifesti e i loro volantini nelle sale d’attesa: purtroppo possono farlo perché la Legge 194 lo prevede, ma la loro è propaganda e non informazione. «Lo Stato con loro chiude un occhio – spiega C. – perché così evita di bandire concorsi per nuovi assistenti sociali delegando situazioni delicate a delle associazioni cattoliche che non hanno gli strumenti necessari per aiutare una donna a portare avanti una gravidanza in una situazione di difficoltà. Quanto a noi che scegliamo di non obiettare, la nostra è una specie di corsa a ostacoli: a Perugia in questo momento c’è un forte estremismo religioso e le associazioni pro-vita che fanno capo al senatore Simone Pillon sono molto forti; si pensi che nelle loro fila c’è il Primario di Ginecologia dell’ospedale. In molti corsi, durante le lezioni all’Università, l’aborto viene paragonato a un omicidio e non viene quasi spiegata l’interruzione di gravidanza in modo scientifico. La conseguenza di questo è che nel mio corso, su venticinque studentesse, soltanto in cinque ci dichiariamo non obiettrici. Non mancano gli scontri e le discussioni tra colleghi, che culminano sempre con l’accusa di avere le mani sporche di sangue».
“Non devi piangere per te ma per il bambino che stai per ammazzare”
Nel 2016 d.C., R. ha 23 anni e decide di interrompere una gravidanza indesiderata nell’ospedale di Cremona: «Il mio ginecologo non era un obiettore e inizialmente mi aveva fornito i recapiti di un ospedale dell’Emilia che somministrava la pillola abortiva, perché da noi non era ancora disponibile. Era quasi una novità e alla televisione avevano dato la notizia di una donna morta dopo averla presa: questo mi ha terrorizzato e così ho scelto di ricorrere all’aborto chirurgico. La prima persona che ho incontrato in ospedale è stata una ginecologa che mi ha trattato con molta scortesia, mi ha chiesto subito il perché volevo ricorrere all’aborto e se conoscessi altri metodi contraccettivi: è stato molto sgradevole perché la gravidanza era dovuta proprio alla rottura di un contraccettivo. Mi disse che se proprio dovevo farlo mi avrebbe dato appuntamento per il pre-ricovero e ovviamente ho accettato. Quando sono andata a fare il secondo controllo prima dell’intervento, mi ha visitato un uomo che, oltre a non farsi troppi problemi nel provocarmi dolore durante la visita, ha fatto anche ironia che l’aborto non fosse un contraccettivo e mi ha invitato a stare più attenta la volta successiva. Mi ha parlato anche di donne che avevano fatto ricorso all’aborto più e più volte, dicendomi che non dovevo fare la loro fine: insomma, non ho trovato un minimo di conforto, ma solo giudizi».
A Cremona, nel 2016 d.C., l’unico giorno in cui è possibile abortire è il mercoledì, R. viene portata in una stanza un po’ nascosta lontana dal reparto di ginecologia e anche in quel giorno così difficile il trattamento a lei riservato è disumano: «Sono arrivata in lacrime in sala operatoria e lì un’infermiera mi disse che avrei dovuto pensarci prima e che ero un’egoista perché stavo piangendo per me invece di piangere per il bambino che mi apprestavo ad ammazzare. Mi sono risvegliata nella mia stanza: ricordo le infermiere che muovendomi come un oggetto mi mettevano questo grosso assorbente che è lo stesso che si utilizza dopo il parto per contenere le perdite di sangue: nonostante avessi ancora difficoltà a leggere mi hanno consegnato un foglio in cui avrei dovuto dire cosa dovevano fare del feto, esortandomi a compilarlo. Ero in camera con una donna molto più grande di me, una madre che aveva scelto di interrompere la gravidanza perché il marito era da poco stato licenziato e non si sarebbero potuti permettere di mantenere un altro figlio. Mi disse che non dovevo preoccuparmi dei giudizi e delle criminalizzazioni, che non avevamo fatto nulla di sbagliato. Poi ha allungato una mano e mi ha dato una carezza: è stato l’unico gesto di umanità che ho ricevuto quel giorno».
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