Diritti
Pensione di reversibilità same sex: numeri e norme, non ideologie
Il diritto alla pensione di reversibilità per coppie dello stesso sesso è uno degli aspetti che vuole disciplinare l’attuale disegno di legge sulle unioni civili in discussione al Senato (il “Cirinnà”), ed è uno degli aspetti che negli ultimi mesi è stato maggiormente oggetto di discussione.
Di questo argomento, discusso da me in varie occasioni pubbliche e non, è bene fissare dei punti.
E’ nota l’opinione contraria sull’estensione del diritto da parte di una certa espressione della politica, ed intendo il centro destra dei soliti Alfano, Lupi, Sacconi, Brunetta, Meloni, Malan, ecc., ma mai mi sarei aspettato contenuti così vuoti e mendaci per sostenere le loro tesi.
Le radici della loro contrarietà si possono dividere in due categorie: ideologiche ed economiche.
Premetto che mi occupo di temi previdenziali, attuariali, statistici e demografici da venti anni per studi e professione, e insieme ad altri tre amici e colleghi (loro tutti e tre eterosessuali, giusto per sgomberare il campo dal conflitto d’interessi per i più maliziosi) un giorno di marzo ci siamo detti “ma quanto costerà la pensione di reversibilità per gay e lesbiche?”.
Nemmeno il tempo di farci questa domanda e esattamente il giorno dopo sugli schermi de La7 il ministro Alfano ha tuonato “Dare la reversibilità ai gay? Costa 40 miliardi.”
Peccato che proprio la sera prima avevamo iniziato la nostra analisi e avevamo appena letto il Rapporto Annuale INPS del 2013 che riporta come costo per la pensione di reversibilità ai superstiti 38 miliardi su base annuale per tutta la collettività italiana. Quindi se attualmente i vedovi e le vedove italiane – che obbligatoriamente provengono tutti da un matrimonio eterosessuale – costano circa 38 miliardi, vuol dire che per i conti fatti dal Ministro o dal suo staff i gay e le lesbiche avrebbero un costo addirittura superiore di 2 miliardi, ossia ci sarebbero all’istante un numero di vedovi gay e vedove lesbiche maggiore rispetto a quelli eterosessuali. Tutto ciò è ovviamente privo di alcun senso tecnico ed economico.
L’assurda e imbarazzante affermazione di Alfano la annovero nello stesso file in cui ho anche inserito, tra gli altri, “i neutrini del Cern della Gelmini” e “Ruby era la nipote di Mubarak”. Insomma mi viene in mente l’espressione “roba da chiodi”, come si dice in Toscana dei fabbri che utilizzano gli scarti di lavorazione del ferro per fabbricare i chiodi.
Uno invece come il senatore Malan (quello che lanciò il libro del Regolamento del Senato all’ex Presidente Franco Marini per intenderci), ha presentato, durante il lavoro in Commissione Giustizia, posizioni contrarie all’estensione di questo diritto, ma se uno va a leggere i resoconti ufficiali sul sito del Senato, non c’è nessun contributo tecnico che il nostro fornisce a supporto delle proprie tesi. Sostiene che sarebbe insostenibile per le casse dell’INPS, ma non ne dà alcuna dimostrazione. Non c’è nessuna cifra, nessuna stima, nessuna base tecnica a sostegno di quello che dice.
Il massimo dell’arroganza e dell’incompetenza, in questo caso, è Renato Brunetta, che a fine marzo, in un convegno in cui Mara Carfagna (tra l’altro eterosessuale sposata e subito divorziata che viene a dire a gay e lesbiche che il matrimonio è solo etero: da che pulpito!) ha incontrato le associazioni LGBT, ha sostenuto una cosa tecnicamente sbagliata e ha giocato a fare il “lei non sa chi sono io” con Andrea Maccarone, rappresentante del Circolo Mario Mieli. In quella sede, Brunetta sostiene l’insostenibilità economica della reversibilità della pensione a coppie same sex alludendo al “differenziale di età tra coppie eterosessuali ed omosessuali” e, nel momento in cui Maccarone chiede un confronto verbale, si arrampica sul proprio curriculum: ”Sono Professore ordinario, se lei ha un titolo più alto del mio me lo dica altrimenti stia tranquillo.”
Ora, è doveroso precisare una cosa: quello che sostiene Brunetta è totalmente sbagliato. E’ vero invece l’opposto: mediamente in una coppia eterosessuale c’è differenza di età fra i due coniugi e mediamente questo corrisponde a un marito anagraficamente più adulto della moglie; aggiungendo a questo che le donne hanno una durata di vita attesa maggiore rispetto agli uomini, la durata di pagamento in rate di rendita vitalizie nei confronti delle vedove eterosessuali è maggiore della durata che si avrebbe tra “due mogli lesbiche” o “due mariti gay”, in quanto a parità di distribuzione di età tra coppie etero e coppie omosessuali, le coppie same sex, possiamo dire, che sono “più coetanei” di quanto non lo siano quelle etero, quindi i due componenti della coppia gay o lesbica hanno una durata residua di vita attesa simile, se non uguale. In pratica prese due donne vedove, una etero e una lesbica, mediamente sarà maggiore il periodo di pagamento della pensione alla vedova eterosessuale, anziché alla vedova lesbica, in quanto il marito (deceduto) della vedova etero muore mediamente prima della moglie (deceduta) della vedova lesbica. Analogo discorso vale in maniera speculare prendendo una coppia di mariti gay versus una coppia di eterosessuali.
E’ un concetto demografico e statistico, sarà pure noioso, ma è importante precisarlo e comprenderlo. Per i più tecnici: basta guardare le probabilità di sopravvivenza o i quozienti di mortalità su “due teste” basati sulle tavole ISTAT. Avevo twittato subito a Brunetta un confronto tecnico-attuariale sul tema, ma ahimè mi ha bloccato senza alcuna risposta.
E oltre ai contrari per motivi economici, ci sono anche quelli che veicolando il loro “no” fanno dell’ideologia il loro punto di forza: due su tutti sono la già Ministra dei Giovani Giorgia Meloni e il già ministro Lupi, e non poteva essere altrimenti viste le loro radici e le loro appartenenze. Sostengono che la pensione di reversibilità sia appannaggio delle sole famiglie tradizionali in quanto nata per tutelare il modello di “famiglia in cui l’uomo lavora, la donna fa i figli sta a casa e siccome rimane vedova ed era senza lavoro allora bisogna poi dargli la reversibilità” (dichiarazione di Lupi del 30 giugno). Che equivale a dire “il soggetto più debole da tutelare era la donna che si occupava dei figli, che non lavora e che sta a casa.” Bentornato Medioevo.
Fa bene Lupi a coniugare il verbo nel tempo passato: “era la donna”. Perché per fortuna non è più così: le donne gestiscono la famiglia sì, ma sempre più spesso e al pari con i mariti e compagni, e comunque lavorano sempre più alla stregua degli uomini nelle famiglie moderne. Lupi si riferisce a un’epoca passata che non esiste più. Ma poi Lupi non dovrebbe avere altri pensieri per la testa in questo periodo?
Ancora più radicale la Meloni che in un post sulla sua pagina facebook ha scritto: “sono convinta che le (poche) risorse dello Stato debbano essere destinate a incentivare la famiglia tradizionale che dall’antichità a oggi è quella che garantisce la natalità di una Nazione”. Ve lo assicuro, non è un mio capriccio di editing: la Meloni, nazione, lo scrive sempre in maiuscolo.
Di quale tradizione parla la Meloni? Di quella tradizione antica che voleva le donne a 25 o 30 anni sposate e con due o tre figli e a casa a fare da mamma, moglie, donna che stira, lava, asciuga e sopporta? E se fosse proprio quella la tradizione che la Meloni vuole far rispettare alle donne di oggi, come mai lei invece a quasi quarant’anni fa la donna single in carriera? Perché vuole imporre a una società ormai cambiata, le cose in cui lei crede, ma che per prima lei stessa non rispetta?
La realtà dei fatti, per fortuna, è ben diversa: se prima in Italia non esisteva alcuno studio tecnico sul tema, nel giro di pochi mesi ne sono stati rilasciati pubblicamente due.
Quello indipendente, a cui ho lavorato insieme ad altri tre tecnici e, il successivo, istituzionale e ancora più attendibile, se vogliamo, prodotto e reso pubblico dal Coordinamento Generale Statistico Attuariale di INPS.
Entrambi confermano la piena sostenibilità economica dell’estensione di questo diritto.
E’ bene fare chiarezza, perché i numeri non sono ideologie.
E nemmeno la norma: infatti, a prescindere dagli impatti economici, la pensione di reversibilità è un istituto da estendere anche alle coppie dello stesso sesso, innanzitutto perché pagano i contributi previdenziali come tutti, ma soprattutto anche perché altrimenti si attuerebbe una discriminazione basata sull’orientamento sessuale secondo quanto previsto da una sentenza della Corte di Giustizia Europea: sarebbe una violazione della direttiva 2000/78 contro le discriminazioni sul lavoro. Inoltre, come ho già detto altrove, anche l’INPS aderisce al programma “Europa 2020” della UE, che “fissa una strategia a riguardo dei sistemi previdenziali, promuove un modello di crescita che non si basi solo sul Pil, ma anche su una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva come fattore essenziale dello sviluppo economico, con particolar riguardo a un “welfare europeo” che garantisca omogeneità di diritti, di tutele e di trattamenti a lavoratori e cittadini in genere.”
Suggerisco, a margine di questa riflessione, un’analisi interessante ed approfondita, del dottor Angelo Schillaci, assegnista di ricerca in diritto pubblico comparato presso l’Università di Roma Sapienza. Schillaci fornisce un quadro comparativo sul diritto previdenziale, mettendo a confronto la situazione di Italia, Spagna, Portogallo, Francia, Regno Unito e Irlanda. E’ un contributo di alto valore, adesso disponibile anche alla pagina web dell’”Associazione Italiana dei Costituzionalisti”.
Questi contenuti, tecnico economici e normativi, probabilmente li conoscono anche i nostri politicanti, ma preferiscono dimenticarsene e mettere tutto in “caciara”, perché per loro è molto più semplice e, purtroppo e spesso, anche per chi li ascolta.
Perché riepilogo sopra i proclami colorati di questi esponenti politici e tento di riportare il tema sui numeri e sui contributi tecnici? Proprio in questi giorni la Commissione Bilancio sta verificando in consultazione con il Ministero Economia e Finanze la copertura economica afferente a questa riforma. Ed è uno step il cui esito dovrà essere un lasciapassare per arrivare alla votazione finale in Commissione e poi nell’aula del Senato.
E l’auspicio ovviamente è che chi siede in Commissione Bilancio al Senato e al Ministero dell’Economia abbia la lucidità adeguata per comprendere che le stime del prof. Tito Boeri e della sua squadra di tecnici, le norme europee, siano tutto ciò da prendere in considerazione e da cui partire per fare i necessari ulteriori approfondimenti tecnici.
Concludo con una riflessione finale: cinque giorni fa “la Stampa” ha scritto che c’era il “rebus dei costi” lasciando intendere che questa fase potesse essere un problema, senza nemmeno menzionare le informazioni ormai pubbliche e disponibili su questo argomento che lasciano trapelare che invece di rebus non dovrebbe essercene nemmeno uno; anziché scrivere semplicemente che il passaggio in Commissione Bilancio è uno step obbligatorio che rispetta la prassi ordinaria dell’iter parlamentare. Non è un’eccezione e nemmeno un pericolo quello di dover verificare le conseguenze sotto il profilo economico quando si lavora per mettere a regime una riforma del genere.
Pessima l’abitudine ricorrente di moli giornali e di molti politici di strumentalizzare persino l’ordinarietà creando delle non notizie: le parole che strumentalizzano, i dati e i riferimenti che non vengono menzionati sono uno dei luoghi in cui germoglia l’impreparazione e la base della deriva ideologica dei pensieri.
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