Diritti
Un’ottima pace tra Russia, Ucraina (e Occidente) è possibile: ecco come
Quando ebbi l’onore di incontrare Lech Wałęsa, nell’estate del 2011, mi disse – nel suo stile così burbero e schietto – che trent’anni prima non avrebbe mai creduto che un giorno sarebbe vissuto in una Polonia libera, in un’Europa unita. Eppure i miracoli possono accadere, a volte. Così come le catastrofi. Di fronte allo spettacolo atroce di un’Europa di nuovo insanguinata, di una brutale guerra di aggressione nelle terre di mezzo dei grandi fiumi, l’Europa dell’estate del 2011 — che pure aveva non pochi problemi — mi sembra, nella benevolenza del ricordo, quasi idilliaca.
In Occidente da qualche tempo si parla di regime change a Mosca. È un grave errore. Anzi, è scherzare con il fuoco. Prima di tutto perché mettere all’angolo Putin potrebbe spingerlo ad azioni ancora più sconsiderate, a una Götterdämmerung in salsa russa: non dimentichiamo che diversi analisti hanno parlato di un presidente russo sempre più rigido e paranoico, e che la Russia vanta un potente arsenale nucleare, con almeno 1.458 testate nucleari utilizzabili in pochi minuti, e un totale di 4.497 testate disponibili. C’è un motivo se i dittatori e i regimi più autoritari cercano spesso di dotarsi dell’arma nucleare: essa è una formidabile assicurazione sulla (loro) vita.
E c’è una ragione se l’8 gennaio 2021, due giorni dopo l’assalto al Campidoglio, il generale Milley, capo dello stato maggiore congiunto statunitense, intimò agli ufficiali del National Military Command Center (il centro di comando del Pentagono che sovraintende anche al lancio di armi nucleari) di informarlo in caso di ordini da parte del presidente, cioè Trump.
Se in una democrazia di antica data come gli Stati Uniti un generale come Milley ha seriamente preso in considerazione il rischio che un Trump alle strette potesse far scoppiare una guerra (anche nucleare) – lo hanno raccontato egregiamente Bob Woodward e Robert Costa in “Pericolo” (Solferino) – come può l’Occidente non temere lo stesso con Putin?
Inoltre la fine della presidenza di Vladimir Putin non significherebbe necessariamente il trionfo della democrazia e della pace in Russia. Tutt’altro. Il regime putiniano non è monolitico, ma è un mosaico di diverse fazioni, e molti degli uomini che le compongono sono estremamente ambiziosi e senza scrupoli: la fine di Putin potrebbe far scoppiare una lotta al vertice, con esiti inaspettati, anche molto drammatici. Il governo russo non è in mano soltanto ai siloviki, come tendono a dire i media. C’è il “cerchio magico” di uomini come Anton Vaino (capo dello staff dell’ufficio esecutivo presidenziale), il più famoso Dmitry Peskov, il ghostwriter Dmitry Kalimulin ecc.; ci sono i boiardi di Stato, cioè i vertici dei colossi statali dell’energia, degli armamenti e così via; in una posizione secondaria figurano gli alti burocrati, come Alexei Kudrin e Dmitry Kozak; e ancora, ci sono i siloviki, i tecnocrati, gli oligarchi (che spesso hanno ammassato le loro ricchezze nei modi più controversi, e non hanno certo paura di sporcarsi le mani). Infine, ci sono i capi delle forze armate.
Non bisogna poi dimenticare che, dopo anni di intensa propaganda, una fetta cospicua della popolazione russa è con Putin, e in ogni caso condivide il suo nazionalismo anti-occidentale. Uno scontro ai vertici potrebbe innescare secessioni di territori periferici (ad es. in Siberia), tensioni in aree instabili come il Caucaso russo, lo “scongelamento” di “conflitti congelati” come la Transnistria, l’Ossezia del sud e l’Abkhazia ecc. Se disordini, violenze, fame, lotte criminali, rischi di golpe e persino guerre caratterizzarono lo sgretolarsi dell’URSS, in un periodo inizialmente di speranza per gran parte della popolazione sovietica, cosa potrebbe accadere oggi, dopo anni di propaganda revanscista, pandemia, sanzioni? E intanto che fine farebbe l’arsenale nucleare citato prima?
Ma ipotizziamo che non si verifichi nessun regime change. E ipotizziamo che alla fine, dopo altri giorni o magari settimane di durissima lotta, la Russia riesca a conquistare Kyiv, Odessa e altri importanti centri ucraini, e proclami un governo-fantoccio, una “Federazione ucraina” guidata dall’ex presidente Yanukovich. Cosa potrebbe fare l’Occidente? Isolare e sanzionare per anni Russia, Bielorussia, “Federazione ucraina”? Continuare a sostenere una resistenza ucraina nei territori occupati, un po’ come fece Washington contro i sovietici in Afghanistan? Sostenere la nascita, magari, di una “Libera Ucraina dell’Ovest” con capitale Leopoli, una democrazia marziale trincerata tra i Carpazi, le alture della Volinia e la dorsale podolica? Scenari del genere sono terrificanti.
Prima di tutto perché le sofferenze del popolo ucraino sarebbero indicibili: per la maggioranza degli ucraini un’Ucraina controllata, in parte o in toto, dalla Russia è un incubo. Molti milioni di profughi ucraini si riverserebbero nell’Unione Europea. Il nostro continente sarebbe diviso da una nuova Cortina di ferro. Ma non è tutto. Russia, Bielorussia e “Federazione ucraina” probabilmente si salderebbero in quello Союзное государство (Stato dell’Unione) che per anni il dittatore bielorusso Lukašėnka era riuscito in qualche modo ad arginare, ma che inizia a profilarsi sul serio (la Bielorussia, per ammissione stessa di Lukašėnka, è già oggi integrata militarmente nella Russia). E se si continua con le congetture più pessimistiche, questo Stato dell’Unione (che forse incorporerebbe anche gli staterelli-fantoccio della Comunità per la democrazia e i diritti delle nazioni), potrebbe legarsi sempre di più alla Cina, creando un mostro euroasiatico che oggi, per fortuna, appare ancora fantascientifico.
L’unica soluzione è la pace. E poiché il regime change è pericolosissimo, e poiché non si può arrivare a una pace (e non a una semplice tregua come quelle che hanno costellato i duri anni di guerra nel Donbass), e soprattutto non si può arrivare a una pace duratura se Russia e Ucraina non ritengono soddisfatte — almeno in parte — le loro richieste, aspirazioni e necessità, è imperativo arrivare a un’ottima pace. Che salvi capre e cavoli, per così dire.
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Per costruire un’ottima pace, bisogna ricostruire le ragioni della guerra d’aggressione russa all’Ucraina. Esse non hanno mera natura politica e militare (e del resto i russi vantano una lunga tradizione nell’ammantare di nazionalismo e messianismo persino le azioni più brutali), ma anche e soprattutto natura economica.
Come ho cercato di spiegare qui, l’Ucraina è stata storicamente un protettorato economico russo. Prima del collasso dell’URSS essa generava quasi il 17% del PIL sovietico, e oltre il 40% della sua produzione agricola. Ancora nel 2012, due anni prima della Rivoluzione della Dignità del 2014, il 25,7% dell’export ucraino finiva in Russia, e quasi il 25% nella UE; nel 2018 oltre il 40% finiva nella UE, e in Russia meno dell’8%. Se prima del 2014 l’Ucraina era, a livello commerciale ed economico, legata tanto alla UE che alla Russia, oggi non è più così. E la Rivoluzione del Dignità del 2014, così come l’occupazione russa della Crimea dello stesso anno (e mese) sono legate a doppio filo al tormentato percorso che ha portato l’Ucraina, nel marzo 2014, a firmare lo European Union–Ukraine Association Agreement.
In Occidente molti commentatori, analisti, studiosi e politici spesso sono inclini a pensare che la dimensione economica e finanziaria conti molto più in Europa e Nordamerica che in Russia o in altri paesi non-capitalisti. Non è così. E del resto se la dimensione economica e finanziaria non fosse così importante, perché varare le sanzioni, che hanno natura in primis economica e finanziaria?
La Russia è molto sensibile alle ragioni dell’economia e del commercio. Non potrebbe essere diversamente, considerando che il paese è in stagnazione da anni, e che gran parte delle sue esportazioni sono energia, minerali e metalli, come ai tempi dell’URSS. Le nuove sanzioni varate dall’Occidente in risposta all’aggressione russa a Kyiv hanno ulteriormente indebolito l’arretrata economia russa. Anche il governo ucraino è estremamente sensibile agli argomenti economici, commerciali e finanziari: quando le armi taceranno si dovrà iniziare a ricostruire l’Ucraina, e questo richiederà ingenti fondi.
Ancora, la guerra in Ucraina è solo l’epicentro di una grande area di tensione geopolitica che va da Bielorussia alla Georgia, e persino oltre. I “conflitti congelati” che menzionavo oltre costellano la mappa dell’Europa orientale come pericolosi focolai in una foresta: dalla Transnistria al Nagorno-Karabakh, dall’Ossezia del sud all’Abkhazia. Di certo l’Occidente non vuole trovare una soluzione sull’Ucraina per poi dover affrontare, tra qualche anno, nuove crisi in Bielorussia (dove la dittatura di Lukašėnka ha perso ormai ogni residuo di legittimità), in Georgia, in Moldavia ecc.
Un’ottima pace, di così vasto respiro, richiede una grande Conferenza di pace, come quella del 1946 a Parigi che pose fine alla Seconda Guerra Mondiale, con i Trattati del 1947. Questa Conferenza di pace non dovrebbe riguardare solo l’Ucraina e i rapporti tra Kyiv e Mosca, ma dovrebbe attuare una risistemazione complessiva di tutta l’Europa orientale, area che dopo il crollo del comunismo non ha conosciuto quella stagione di democratizzazione e sviluppo che ha trasformato l’Europa centrale, oggi nella UE (pur con disomogeneità anche molto marcate, e in alcuni casi involuzioni).
Occorre, dunque, una grande Conferenza paneuropea per la pace e la prosperità nell’Europa orientale. Ciò logicamente comporta la necessità di riunire intorno a un tavolo non soltanto l’Ucraina e la Russia, ma la Bielorussia, la Moldavia, la Georgia, nonché la UE, gli Stati Uniti, la NATO, l’OSCE, il Regno Unito, il Canada, la Turchia, la Norvegia e la Svizzera, e forse anche l’Azerbaigian e l’Armenia. Dovrebbero poi partecipare anche i rappresentanti delle Nazioni Unite, e di Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Organizzazione mondiale del commercio e soprattutto Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo.
Poiché le ragioni della guerra d’aggressione russa all’Ucraina sono anche e soprattutto di tipo economico e commerciale, e poiché con Mosca si deve usare il bastone (ma tale bastone per quanto grosso non deve essere eccessivamente grosso, pe i motivi indicati sopra), è ovvio che serve anche la carota: questa Conferenza dovrebbe necessariamente prevedere un grandissimo piano di ricostruzione e modernizzazione ecologica dell’Europa orientale.
Dopo il crollo del comunismo sarebbe servito un Piano Marshall per l’Europa orientale, per incidere in profondità sulle economie di Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia e Georgia, e trasformarle in economie avanzate o semi-avanzate, come è accaduto per la Repubblica ceca, la ex-DDR, la Polonia, l’Estonia ecc. Sarebbe stato nell’interesse dell’Occidente, così come è stato ad esempio nell’interesse di Bonn spendere circa 1.300 miliardi di euro in venti anni per assorbire la scalcinata economia socialista della Germania est.
Dopo il crollo del comunismo l’Occidente non fece abbastanza per Russia, Ucraina, Georgia, Bielorussia e Moldavia (anzi), e il risultato è sotto gli occhi di tutti: la Moldavia è lo stato più povero d’Europa; la Bielorussia è una dittatura che si regge esportando legname, potassio e minerali; la Georgia è rimasta povera e arretrata; l’Ucraina è da anni divorata da una grave corruzione, e lo stesso può dirsi per l’economia russa, stagnante e incapace di innovare, nonostante una tradizione tecno-scientifica di grandissimo rilievo.
La Conferenza dovrebbe dunque prevedere:
1. Il sostegno finanziario occidentale a un piano per la ricostruzione dell’Ucraina, secondo soluzioni all’avanguardia in grado di coniugare efficienza e attenzione alla sostenibilità;
2. Il sostegno finanziario occidentale a un piano modulare per la modernizzazione ecologica di Bielorussia, Moldavia e Georgia, con forti investimenti nel capitale umano;
3. Il sostegno finanziario occidentale a un piano di riconversione ecologica delle industrie e infrastrutture della Russia.
Mentre probabilmente nessun governo europeo o nordamericano avrebbe granché da obiettare a un sostegno finanziario dell’Occidente (UE, USA, Canada, Svizzera, Norvegia, FMI, BM ecc.) alla ricostruzione dell’Ucraina, finanziare la modernizzazione ecologica di Moldavia, Georgia e soprattutto Bielorussia genererebbe forti opposizioni, per non parlare di un sostegno finanziario alla Russia. E tuttavia questo fiume di denaro sarebbe la “carota” per avviare tre processi importantissimi, anche per l’Occidente, e scongiurare nuove guerre e future ondate di profughi:
1. La transizione democratica in Bielorussia, che potrebbe procedere secondo modalità simili a quelle viste nella Polonia del 1988: ripristino dei diritti umani fondamentali, immunità per il dittatore Lukašėnka, negoziati ad ampio raggio tra il regime e il Consiglio di coordinamento democratico (Каардынацыйная рада), elezione di una nuova Assemblea nazionale dove una parte dei seggi venga riservata a candidati di regime;
2. La stabilizzazione di Moldavia e Georgia, con il riassorbimento di Transnistria, Ossezia del sud e Abkhazia nei due paesi, e l’evacuazione delle forze russe in loco (sostitute da Caschi blu delle Nazioni unite), in cambio dell’immunità per i vertici dei tre pseudo-stati, di forme di autonomia regionale nonché di speciali garanzie culturali, sociali, linguistiche e politiche per le minoranze etniche, religiose e linguistiche presenti nei tre pseudo-stati;
3. L’integrazione della Russia nell’economia occidentale, non secondo le modalità degradanti e lesive della dignità del popolo russo come verificatosi negli anni Novanta, ma su una base paritaria, in modo da iniziare a costruire le fondamenta di quella Casa comune europea che Michail Gorbačëv evocava. Ancora, la riconversione ecologica delle industrie e infrastrutture russe diminuirebbe le emissioni di CO2 della Russia (uno dei maggiori inquinatori del pianeta) e garantirebbe occupazione di qualità a milioni di russi duramente colpiti da anni di sanzioni occidentali e dalla pandemia. Inoltre l’integrazione della Russia nell’economia occidentale avvierebbe la costruzione di uno spazio economico paneuropeo da Lisbona a Vladivostok di grandissimo valore per le imprese occidentali. I commerci tra Russia e Unione Europea (ma anche tra Russia e potenze anglosassoni) crescerebbero, e con essi la speranza di lunghi decenni di pace, sottraendo la Russia all’abbraccio della Cina.
Putin potrebbe rimanere al potere. Negli anni tuttavia la società civile russa, irrobustita da un’economia più aperta, acquisirebbe gradualmente forza, e nel giro di una ventina di anni sarebbe ragionevole aspettarsi una quasi-democratizzazione della Russia, nonché un netto miglioramento delle condizioni di vita dei russi. Infine, sarebbe compito di una Commissione tecnica paritaria e super partes verificare un valido utilizzo dei fondi occidentali da parte di Mosca (in Bielorussia, Ucraina, Moldavia e Georgia invece il processo sarebbe supervisionato da FMI, BM, UE e BERS, in un dialogo fecondo con i parlamenti nazionali).
Tutte le sanzioni contro la Russia, le aziende e i cittadini russi dovrebbero essere eliminate, e la Russia dovrebbe essere pienamente reintegrata in ogni organizzazione europea e mondiale, nonché nel G7 (che tornerebbe a essere G8). Sarebbe auspicabile inoltre l’avvio di un grande round di nuovi trattati di scambio tra la Russia e UE, Stati Uniti, Canada e Regno Unito, e un round diplomatico tra Stati Uniti e Russia in merito al Trattato sulle CFE, al Trattato INF e al Trattato sui Cieli aperti.
In cambio della pace con l’Ucraina, della graduale democratizzazione della Bielorussia e della stabilizzazione di Georgia e Moldavia, nonché della garanzia di non ostacolare il processo di integrazione nella UE dei quattro paesi, la Russia otterrebbe:
1. La neutralità permanente di Bielorussia, Moldavia, Georgia e Ucraina;
2. Il rilancio del dialogo e della cooperazione tra NATO e Russia, a partire del NATO-Russia Council, che dovrebbe iniziare a riunirsi in modo regolare;
3. L’impegno, da parte di Bielorussia, Moldavia, Georgia e Ucraina a rispettare le minoranze etniche, religiose e linguistiche presenti all’interno dei loro confini;
4. La demilitarizzazione completa di tutto il Donbass; la Repubblica popolare di Doneck e la Repubblica popolare di Lugansk diventerebbero due cantoni fortemente autonomi nell’ambito degli oblast autonomi di Doneck e Lugansk, all’interno dei confini dell’Ucraina, secondo il modello applicato con successo nella provincia autonoma italiana dell’Alto Adige/Südtirol. Per vent’anni i Caschi blu delle Nazioni unite dovrebbero supportare le forze di polizia locale nel mantenimento dell’ordine e nel contrasto al contrabbando e al traffico di droga. I vertici politici e militari delle due ex repubbliche riceverebbero l’immunità;
5. Garanzie di autonomia regionale a Transnistria, Ossezia del sud, Abkhazia; promozione della cultura russa nonché speciali garanzie culturali, sociali, linguistiche e politiche per le minoranze etniche, religiose e linguistiche in loco.
6. La Crimea rimarrebbe provvisoriamente una Repubblica all’interno dei confini russi, ma verrebbero immediatamente ripristinate tutte le libertà fondamentali per le minoranze etniche, religiose e linguistiche in loco (e una commissione super partes sarebbe incaricata di vigilare sul rispetto delle stesse). La Russia si impegnerebbe a indire un referendum entro cinque anni con tre opzioni: a) permanenza della Crimea nella Russia; b) piena indipendenza della Crimea come Stato neutrale, fermo restando il possesso permanente russo della base di Sebastopoli; c) ritorno all’Ucraina come Repubblica autonoma, fermo restando il possesso permanente russo della base di Sebastopoli. Allo scopo di salvaguardare nel migliore modo i diritti della popolazione residente e gli interessi di Russia e Ucraina, tutte le operazioni di voto sarebbero supervisionate da una commissione super partes, su modello di quanto accadde nel 1935 nella Saar.
In cambio della pace con la Russia, della neutralità permanente e della demilitarizzazione del Donbass, l’Ucraina otterrebbe:
1. La possibilità di piena integrazione nella UE (percorso che richiederà comunque vari anni);
2. Ingenti fondi per la ricostruzione;
3. La possibilità di recuperare la Crimea in modo democratico e pacifico;
4. Il recupero dei territori secessionisti nel Donbass.
Per concludere, la UE dovrebbe varare una Eastern Dimension, sulla falsariga della Northern Dimension varata nel 1999, joint policy di successo che coinvolge su un piano paritario UE, Russia, Norvegia e Islanda. La Eastern Dimension dovrebbe coinvolgere UE, Russia, Ucraina e Bielorussia, e dovrebbe consentire una collaborazione reale e paritaria in settori cruciali per i cittadini europei, russi, ucraini e bielorussi come l’ambiente, l’istruzione, la cultura, la salute, i trasporti ecc.
Ciò che funziona nella regione artica può funzionare bene anche nell’Europa orientale. La Eastern Dimension potrebbe con il tempo preludere a una più intensa collaborazione tra la Russia e la UE anche in altri settori ancora più delicati, e ad accordi commerciali di ampia portata.
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La proposta di Conferenza sopra abbozzata è ambiziosissima, quasi utopica. Ma non furono ambiziosissimi gli americani quando lanciarono il Piano Marshall? Non furono utopici uomini come De Gasperi, Monnet, Adenauer, Schumann, Spaak? Dopo le immani sofferenze degli ucraini, dopo decenni di umiliazioni e patimenti per milioni di bielorussi, moldavi, georgiani e russi (giacché il regime autoritario di Putin è costato lacrime e sangue a tanti russi), non è giunto il momento di essere ambiziosi e utopici? La pace può essere costosa, ma la guerra lo è molto, ma molto di più, soprattutto quando coinvolge una potenza nucleare con 4.497 testate in grado di rendere la Terra, per anni, un incubo di fuoco, buio, gelo, guerra, morte.
Senz’altro è ambizioso anche il piano di ricostruzione e modernizzazione ecologica dell’Europa orientale. Tuttavia esso non solo farebbe rinascere le economie di Ucraina, Moldavia, Russia e Bielorussia, e contribuirebbe in modo decisivo a stabilizzare la regione, ma sarebbe una gigantesca opportunità di business per le imprese del Vecchio continente e del Nordamerica. Farebbe ripartire i commerci, moltiplicherebbe gli investimenti.
Chi proverà a organizzare questa Conferenza? L’Italia e la Santa Sede, unite, potrebbero. Tra tutti i grandi paesi occidentali, l’Italia è quello percepito come più amico dal Cremlino. Negli anni più bui della Guerra fredda, il nostro paese riuscì a dialogare con l’URSS, con abilità e lungimiranza. Il presidente del consiglio Mario Draghi è stimato da Putin, gode di grandissima influenza a Bruxelles, Berlino, Francoforte e Parigi, ed è molto apprezzato a Washington e a New York, così come a Londra.
La Santa Sede, durante la Guerra fredda, contribuì prima a promuovere il dialogo tra l’Est e l’Ovest, e poi alla fine relativamente pacifica del comunismo, e ha un’eccezionale know-how diplomatico. Pontefici come Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II furono anche grandi europei. Oggi sul soglio di Pietro c’è un papa che gode di carisma e stima globali, da Vancouver a Vladivostok, e che è molto amato in Ucraina, terra con quattro milioni di cattolici.
Unendo le forze, l’Italia e la Santa Sede potrebbero organizzare a Roma la Conferenza, dando un contributo essenziale alla pace mondiale. Roma sarebbe lo scenario perfetto, come si è già visto durante il G20: è la città della pace, ed è da millenni crocevia di popoli, culture, religioni. Roma è la città di tutti gli europei: il luogo dove nel 1957 nacque una nuova Europa, e dove potrebbe nascerne una ancora più grande e splendida domani.
Questo post è tratto da un Commento uscito originariamente sul blog dell’Osservatorio Geopolitico e Geostorico del Nordest per l’Impresa e il Lavoro (OGGNIL).
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