Diritti
OLTRE IL VIRUS. Pubblicato il XVII° rapporto dell’Associazione Antigone
E’ stato pubblicato in questi giorni l’annuale rapporto dell’Associazione Antigone sulla situazione delle carceri italiane, presentato alla stampa l’11 marzo alla presenza del capo del Dap Dino Petralia, della sua omologa Gemma Tuccillo, capo Dipartimento per la giustizia minorile, e del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma (siamo alla diciassettesima edizione).
Rispetto all’antica ed endemica piaga del sovraffollamento nelle carceri italiane, condizione oggettiva di trattamento degradante, occorre registrare che la pandemia ne ha fatto una questione di salute pubblica. Al 28 febbraio 2021 i detenuti erano 53.697. Erano 61.230 il 29 febbraio del 2020, a pochi giorni dalla scoperta del paziente zero di Codogno. L’Italia non era ancora in lockdown. Dunque in dodici mesi il calo è stato pari a 7.533 unità, corrispondente al 12,3% del totale. Una diminuzione che ha riguardato condannati e persone in attesa di giudicato in modo non troppo differente. Oggi la percentuale dei condannati è del 68%. Le persone che non hanno ricevuto neanche il primo giudizio sono pari al 16,5%.
Il tasso di affollamento è oggi pari al 106,2%. Posto però che la stessa amministrazione penitenziaria riconosce formalmente che “il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato”, e che presumibilmente i reparti chiusi riguarderebbero circa 4 mila posti, il tasso di affollamento effettivo, seppur non ufficiale, va a raggiungere il 115%.
Per arrivare al 98% della capienza ufficiale regolamentare, considerata in alcuni paesi la percentuale fisiologica di un sistema che abbia sempre la disponibilità di un certo numero di posti liberi, per eventuali improvvise ondate di arresti o esecuzioni, sarebbe necessario deflazionare il sistema di altre 4.000 unità, che diventano 8.000 se si tiene conto dei reparti transitoriamente chiusi.
Le cinque carceri prime in classifica per sovraffollamento risultano: Taranto, Brescia, Lodi, Lucca, Grosseto.
La parziale riduzione della popolazione detenuta intervenuta nell’ultimo anno non ha cambiato le proporzioni tra stranieri e italiani. I primi oramai da alcuni anni si attestano intorno al 32,5% del totale dei detenuti. Va ricordato che erano il 37,15% alla fine del 2009, e che in termini assoluti sono diminuiti di ben 6.723 unità nel giro di undici anni. Dunque le urla scomposte di chi associa la condizione dello straniero a quella del criminale non hanno fondamento statistico.
Paradigmatico, nel considerare questa riduzione di presenza degli stranieri, è il caso dei rumeni. Al 28 febbraio 2021 erano 2.049, pari al 3,81% del totale dei detenuti presenti. Nel 2009 erano ben 2.966, pari al 4,57% del totale. Un calo enorme, sia in termini percentuali che assoluti.
A dimostrazione che il radicamento sul territorio e l’inclusione sociale e lavorativa rappresentano la prima forma di prevenzione del crimine per gli immigrati.
Se si rapporta il numero di persone detenute per regione di nascita a quello degli abitanti delle stesse regioni, si vede chiaramente come siano le regioni povere quelle da cui proviene la maggior parte dei detenuti. Il numero di detenuti calabresi è di 19,2 ogni 10.000 persone residenti in Calabria. Seguono la Campania con 15,7, la Sicilia con 13,98, la Puglia con 11,2, la Sardegna con 5,9, il Lazio con 5,1, la Basilicata con 4,9, il Molise con 3,42, l’Abruzzo con 2,95, la Liguria con 2,94, il Piemonte con 2,9, la Lombardia con 2,58 e dietro tutte le altre.
I numeri mostrano quanto la condizione sociale ed economica di provenienza influisca sulle possibilità di finire in detenzione.
Come negli anni precedenti, anche nel 2020 vi è stata una diminuzione degli omicidi volontari. In particolare, si è passati dai 315 omicidi del 2019 ai 271 del 2020, con una riduzione pari al 14%. Quest’anno si è scesi per la prima volta sotto i 300 omicidi, raggiungendo i minimi storici. La diminuzione degli omicidi totali non ha trovato però corrispondenza in una pari riduzione negli omicidi con vittime donne. Negli ultimi due anni, risultano in lieve aumento le vittime di sesso femminile (da 111 del 2019 a 112 del 2020) e quelle uccise in ambito familiare affettivo (da 94 a 98).
Mancano mediatori culturali. Sono solo 3 quelli ministeriali in servizio.
Il volontariato rappresenta una ricchezza straordinaria (ed è un caso tutto italiano). Erano 19.500 i volontari nel 2019 autorizzati a vario titolo a entrare negli istituti a supporto delle attività interne
Le proposte di Antigone per migliorare le condizioni di detenzione sono quattro:
1. Nuovo Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario – Il Regolamento penitenziario del 2000 va riscritto tenendo conto dei cambiamenti avvenuti nel mondo esterno, della riforma dell’ordinamento penitenziario entrata in vigore nell’ottobre 2018, degli insegnamenti appresi dalla crisi sanitaria, della necessità di rendere il carcere – come ci chiedono gli organismi internazionali sui diritti umani – un luogo responsabilizzante, dove la vita scorra nel modo più simile possibile a quella esterna in vista di un ritorno in società delle persone detenute.
2. Più risorse per le misure alternative e per la giustizia di comunità – Nel 2021 il budget per il Dipartimento Giustizia minorile e di comunità, che ha in carico le misure alternative, è stato di 283,8 milioni. Al DAP sono stati assegnati 3,1 miliardi di euro. Usiamo il Recovery fund per invertire questo trend di spesa. Le misure alternative producono sicurezza. Investiamo in case di accoglienza per detenuti in misura alternativa, progetti educativi e sociali che riducano i rischi della devianza, trattamenti socio-terapeutici esterni per chi ha problemi di dipendenza, case famiglia per detenute madri, accordi con le centrali della cooperazione sociale, dell’artigianato e del mondo dell’industria per facilitare inserimenti lavorativi di persone in esecuzione penale.
3. Più risorse per modernizzare e migliorare la vita interna. La pandemia ha dimostrato quanto sia essenziale uscire dall’analfabetismo informatico che ha investito le carceri negli anni scorsi. Vanno potenziate le dotazioni tecnologiche di ogni istituto, le infrastrutture per la didattica a distanza, le reti wifi e telefoniche. Bisogna inoltre investire negli spazi comuni delle carceri, nelle aule, nelle attrezzature sportive, nelle biblioteche, nei teatri, nelle officine. Le ristrutturazioni di alcuni istituti visitati dall’Osservatorio di Antigone sono necessità non rinviabili, così come il potenziamento delle strutture mediche e infermieristiche.
4. Più risorse da investire nel capitale umano – Gli educatori presenti sono il 18% in meno di quelli previsti (733 invece di 896). Questo vuol dire 1 educatore ogni 73 detenuti. Il trattamento economico a loro riservato è nettamente inferiore rispetto a quello degli agenti. I funzionari amministrativi sono il 21,6% in meno di quelli previsti. Ugualmente medici, infermieri, psicologi sono insufficienti, al pari degli assistenti sociali. Infine, sono numerosi i casi in cui un unico direttore è a capo di più di un istituto. Il Recovery Fund deve essere una grande occasione per far entrare le nuove generazioni nei lavori che hanno a che fare con il carcere, per adeguare le aspettative economiche del personale alla rilevanza dell’impegno professionale, per assicurare una piena e continua formazione a tutto lo staff penitenziario.
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