Diritti

Non serve più carcere, ma fare meglio nel carcere che c’è

4 Ottobre 2022

“Il carcere è un luogo che non ha appartenenza. Che non ha riconoscibilità. Esiste ma rimane fuori dalla nostra percezione. Se dovessimo disegnare la mappa di una città, pochissimi si ricorderebbero del carcere. Ci metteremmo magari l’ospedale, il tribunale, la scuola, il parco giochi, ma difficilmente ci ricorderemmo del carcere”.  Con queste parole Cosima Buccoliero cerca di farci riflettere sulla condizione del sistema penitenziario nel nostro Paese.

È stata a lungo vice direttrice e poi direttrice del Carcere di Milano Bollate, vice direttrice della Casa di reclusione di Opera a Milano, mantenendo anche la guida dell’Istituto penale minorile di Milano Cesare Beccaria.

Il suo libro “Senza sbarre” storia di un carcere aperto, scritto con la collaborazione di Serena Uccello, giornalista de Il Sole24Ore, ci racconta la storia del carcere di Bollate, il carcere “modello” che nel 2021 ha compiuto 20 anni. Un carcere dove la recidiva delle persone che ne escono è pari al 17% rispetto al 70% della media nazionale. L’obbiettivo principale rimane il recupero, perché il recupero equivale a una bassa recidiva e una bassa recidiva equivale a una società più sicura. Secondo Buccoliero, non servono più carceri, né più carcere, ma bisogna occuparsi meglio del carcere che c’è.

Il libro, è ricco di testimonianze e di aneddoti, situazioni critiche, episodi violenti, le malattie, la popolazione carceraria che invecchia, gli amori nati in carcere, la questione migratoria, giovani donne che devono affrontare il percorso trattamentale di detenute e di madri, solo per citarne alcune. Ti fa entrare in un mondo sconosciuto, verso il quale si nutrono molti pregiudizi, leggerlo fa riflettere, non ha la presunzione di distruggere luoghi comuni, ma ci porta a conoscere una realtà oscura, lontana, che nemmeno immaginiamo; ecco già conoscerla è un risultato.

Ho avuto la fortuna di conoscere Cosima Buccoliero molti anni fa e di avviare insieme ad una cooperativa un’attività lavorativa all’interno del carcere. Ci siamo persi di vista per molto tempo, l’attività ha continuato a funzionare, un successivo incontro molti anni dopo per un’intervista su questo stesso giornale, trovo una persona ancora più motivata che subito dopo ha dovuto gestire il carcere con il covid, dirigere un carcere in una situazione di emergenza fa esplodere difficoltà che sono intuibili. C’è la paura del contagio quindi l’angoscia di un focolaio. Torna alla ribalta il problema del sovraffollamento carcerario, significa che una camera, una cella che è stata costruita per ospitare cinque persone, in realtà ne ospita dieci.

Lo stesso covid le ha impedito di ritirare materialmente l’Ambrogio d’oro, un riconoscimento da lei stessa considerato un premio collettivo, perché la candidatura giungeva dal mondo penitenziario.

Un solo appunto: il libro è troppo corto, dura poco, ma se si legge con trasporto e attenzione è un libro breve, ma lungo.

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