Diritti
Non migliori o peggiori. Semplicemente, dovremmo almeno provarci
Quando ho saputo del ragazzo annegato a Venezia ho ricordato, non era certo la prima volta, un episodio di quando ero bambino. Ero al fiume, chissà quale fiume, insieme ai miei genitori. Era un punto panoramico, molto bello, dove però non faceva il bagno nessuno, perché la forte corrente lo rendeva estremamente pericoloso e praticamente impossibile. Alcuni ragazzi giocavano a palla non molto lontano da noi. Quando il pallone era finito in acqua, e il primo ragazzo era affogato cercando di recuperarlo, uno dopo l’altro diversi fra loro erano stati portati via dalla corrente nel tentativo di prestarsi soccorso a vicenda. Ho sempre pensato a quanto coraggio avessero avuto, vedendo la fine che aveva fatto chi li aveva preceduti soltanto di un attimo.
E poi ci sono loro. Quelli di Venezia e del giovane lasciato annegare. Credo, tutto sommato, che se lo avessero semplicemente lasciato affogare ci saremmo scandalizzati di meno. Quanti hanno cercato d’inventarsi una scusa – o una giustificazione – hanno ripetuto a più non posso “chi si fosse tuffato sarebbe morto con lui”. Inizialmente mi sono detto che se in quel momento si fosse creato un silenzio di tomba, se avessimo percepito un minimo di disperazione ci avremmo probabilmente creduto. Non è facile condannare la paura, ma non è la paura che viene fuori guardando quel video. Vengono fuori gli insulti, il disprezzo a priori. “Lasciate affogare quel negro” non racconta davvero nessuna paura. Racconta la nostra Italia razzista.
“No, non entrerà mai nella testa della signora Eva Kluge che un uomo come il vecchio Rosenthal sia peggiore dei Persicke soltanto perché è ebreo”. E ancora: “Chi lo sa? Perlomeno lei ha resistito al male. Non è diventato malvagio insieme con gli altri. Lei ed io e i molti che sono in questa casa e molti, moltissimi in altre case simili e le decine di migliaia nei campi di concentramento continuano a resistere ancora oggi, domani…”.
Sono solo due dei dialoghi e dei pensieri che Hans Fallada (Rudolf Ditzen) metteva in bocca ai coraggiosi scrittori di cartoline di Ognuno muore solo, e a uno dei compagni di cella. Non chiedetemi altro sul libro. Non posso spiegarvi la trama. Se non lo avete letto, per una volta ne vale davvero la pena. Torniamo al momento in cui quel ragazzo si butta e sembra destinato a annegare. Inizialmente ho reagito con ribrezzo. Poi, però, mi sono detto che è vero, che molte persone hanno legittimamente potuto pensare che si sarebbe salvato, che avrebbe afferrato il salvagente e che quella brutta vicenda sarebbe finita in quel modo. Credo possibile che le immagini abbiano profondamente distorto quanto è avvenuto: “..qualsiasi evento, una volta avviato, qualunque siano le sue coordinate morali, ha bisogno di un completamento, perché possa venire al mondo qualcos’altro, e cioè la fotografia. Una volta concluso l’evento, continuerà a esistere la sua immagine, conferendo all’evento stesso una sorte d’immortalità (e d’importanza) che altrimenti non avrebbe avuto”, scrive Susan Sontag nel suo Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società. Credo, insomma, che forse non avremmo letto nello stesso modo quanto è accaduto a Venezia, se per assurdo nessuno fra i presenti avesse avuto una videocamera o una macchina fotografica, e se dell’episodio fossimo venuti a conoscenza soltanto per mezzo del racconto di uno o di più testimoni. Soprattutto, senza lo squallido audio, senza il rumore di fondo di qualche razzista che pronuncia a voce alta alcune parole inumane, schiettamente violente, stupide e inutili. E questo mi pare il tema centrale. L’eco che hanno un manipolo di balordi senza cervello, il cui inutile rumore, però, risulta profondamente amplificato ogni qualvolta fra i più – fra noi, da tutti questi imbecilli così diversi e più umani – vince il silenzio e manca un po’ di coraggio. Ché questa vicenda possa – almeno – aiutarci a ricordare che ogni parola è importante. Le nostre, e le nostre insieme a quelle degli altri.
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