Diritti
Nessun “Je suis Charlie” per Bruxelles
Immediatamente dopo gli attacchi al cuore di Parigi dello scorso inverno, su tutta la rete, in particolare su Facebook, era sorto istintivamente un “abbraccio” di solidarietà. Ovunque era un proliferare di tricolori francesi, di immagini della Torre Eiffel, di foto del profilo colorate di rosso, bianco e blu. Quel giorno eravamo tutti parigini. Tutti un po’ francesi, almeno nel cuore. Stesso scenario ieri a Bruxelles, stessa violenza, stesso sangue, stesso dolore. Ma reazioni molto diverse. Pochi tricolori in giallo, rosso e nero, nessuna fiaccolata e candele alle finestre. Nelle piazze solo poche persone a testimoniare vicinanza. Su Facebook, che ormai è una sorta di piazza virtuale che viaggia di pari passo di quelle reali e ne segna il polso, pochissimi i profili segnati dai colori d’oltralpe. Sarebbe facile dire che questo é un luogo superficiale dove le emozioni durano il tempo di un “mi piace”, ma la risposta non é questa o, perlomeno, non solo. In realtà il tema é molto più sottile anche se spesso non ce ne rendiamo immediatamente conto. E ha a che fare con la nostra percezione dell’Europa.
Dove è nata l’Europa
Identificarsi con Parigi e Londra é facile, immediato. Lo sarebbe allo stesso modo con Berlino o Madrid. Perché é in questi luoghi che é nato il nostro essere europei. Il nostro continente, come la nostra cultura, sono il frutto di una guida anglo-francese da un lato. Cui si contrappone, storicamente, l’anima tedesca e quella ispanica dall’altro. Questo ci mostra la storia. Il resto é sempre stato una sorta di “periferia” nelle vicende più importanti che hanno plasmato lo spirito del continente. Una periferia spesso vissuta come lontana, irrilevante nel migliore dei casi, sacrificabile o semplice terra di conquista nel peggiore. Lo abbiamo visto in occasione della crisi greca dello scorso anno o in relazione ai recentissimi attentati di Ankara, in Turchia. Altrettanto cruenti. Ma lontani e comunque letti come una questione interna a un solo paese, peraltro neppure “europeo”, benchè da sempre legato a doppio filo con la nostra storia.
Bruxelles “capitale” d’Europa?
Al contrario l’identificazione, la vicinanza è istintiva verso fatti e persone che viviamo come un “noi”. Ma c’è un ma. L’Europa, come istituzione, per quanto debole, esiste. E ha una capitale: Bruxelles. E allora perché non è esploso questo sentimento dopo i fatti atroci di ieri? Perché nessun “Je suis Charlie” in versione belga? Una ragione, forse, sta nel vissuto di noi italiani, popolo di immigrati che dai belgi non ha propriamente ricevuto un trattamento di favore. Fatti lontani anche questi ma forse non abbastanza, dato che molti nostri nonni hanno “scelto” quella destinazione per costruire lì una nuova vita. Ma, e c’è un altro ma: i terroristi quelli dell’Isis conoscono benissimo Bruxelles e la debolezza che rappresenta. Scrive lo storico Gilles Kepel, oggi sul Corriere della Sera: “Non è affatto strano che Isis o Daesh, come lo chiamano in arabo, colpisca in Belgio. I terroristi si muovono particolarmente bene dove le strutture statali sono deboli. Lo abbiamo visto in Iraq e in Siria: Isis prospera nei cosiddetti stati falliti. E quello belga è uno di questi. La questione linguistica lacera la società belga. Lo scontro tra fiamminghi e valloni francofoni ha ormai raggiunto livelli da guerra civile strisciante… Analisti e politici europei continuano ad evocare maggiore cooperazione tra le forze di sicurezza dei paesi membri senza rendersi conto che in Belgio questa cooperazione non esiste neppure tra quartieri di lingua diversa nella stessa capitale Bruxelles. In una situazione di questo genere gli estremisti islamici operano come pesci nell’acqua”
Siamo tutti in guerra?
A questa analisi di Kepel si aggiunge il fatto che Bruxelles vanta la presenza di una delle comunità islamiche più grandi d’Europa. E da questo nasce un altro problema, ancora più urgente: nonostante da più parti in questi anni siano arrivate analisi sulle problematiche relative all’immigrazione in Europa, assistiamo oggi a una quasi totale incapacità di proposta politica che non vada oltre l’approssimazione o le affermazioni roboanti di fronte all’emergenza. Fa davvero pensare che sia un presidente socialista come Hollande, uno dei più opachi della storia francese, a chiedere un cambio della costituzione per far fronte a quella che definisce frettolosamente una “guerra”. Come se evocare la guerra e una “rapida soluzione” militare ci sollevasse dalle responsabilità verso i veri motivi che ci hanno portato fin qui.
Il “problema” migratorio
Già in occasione della Conferenza Onu sul clima di Copenhagen del 2009, il Ministro delle Finanze del Bangladesh sostenne che nel giro di 40 anni, a causa dei cambiamenti climatici, circa 20 milioni di abitanti del suo paese sarebbero stati costretti a lasciare il paese. Il Ministro, il cui paese ha una densità tra le più elevate al mondo, fece appello alla comunità internazionale per una gestione lungimirante dei flussi migratori che partisse da subito, a mano a mano che le popolazioni abbandonavano le aree costiere danneggiate da uragani e alluvioni. La Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), l’organismo scientifico che valuta l’impatto del cambiamento climatico, ha calcolato che, entro il 2050, ci potrebbero essere più di 200 milioni migranti dovuti ai cambiamenti climatici. E la stragrande maggioranza di questi provengono da paesi di cultura e religione islamica.
Includere, non escludere
Ma i vari paesi europei hanno puntato prevalentemente su misure che ledono diritti fondamentali della persona e che hanno come unico effetto quello di fare terra bruciata attorno agli immigrati, sia agli irregolari che a coloro che cercano di mettersi in regola, facendoli “scomparire” sempre più nella clandestinità, in una sorta di “ottica del limbo”. Diventa urgente rivedere complessivamente e radicalmente la logica restrittiva e punitiva che non permette a tutti i cittadini non comunitari che svolgono un’attività lavorativa di percorrere la strada dell’emersione, favorendone l’uscita dalla condizione di clandestinità e soprattutto da una condizione che li spinge ai margini della società e spesso nella braccia della criminalità. E che gli immigrati, se regolarizzati, siano una risorsa dal punto di vista economico è fuor di dubbio: solo in Italia, nel 2008 l’apporto lavorativo degli stranieri era stimato a 11,1% del Pil e il contributo all’Inps di quasi 11 miliardi di euro con 165 mila titolari di impresa con cittadinanza estera, che danno lavoro anche a molti italiani. Urlare al lupo al lupo oggi è la più facile e strumentale via d’uscita per chi non sa o non vuole avere uno sguardo più onesto e approfondito su questa questione. Ma ciò che accade non lascia più alibi. Un’Europa diversa va costruita. Un’Europa dove siamo tutti cittadini. E dove la lotta all’emarginazione è il migliore antidoto per l’emergere e il prosperare dei radicalismi. Richiede coraggio e visione. Ma non c’è altra via. Ed è certo più concreta di un gesto di un’immagine di solidarietà tricolore sul profilo di un social network.
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