Clima
Nazioni Unite: raddoppiano le cause in materia di giustizia climatica
Secondo l’agenzia UNEP, negli ultimi due anni i casi di “climate litigation” sono raddoppiati nei tribunali di tutto il mondo, passando da 884 a 2.180. E l’Italia è un modello nel riconoscimento dei “migranti climatici”
Dalle piazze ai tribunali: negli ultimi due anni i casi di “climate litigation”, ovvero le azioni legali intentate per ottenere giustizia climatica dalle corti di giustizia sono raddoppiati, rendendo così la lotta per la tutela dell’ambiente, nata come fenomeno sociale, una vera e propria pratica giuridica. Questo è quanto emerge dal Global Climate Litigation Report: 2023 Status Review, ultimo report ONU in materia di giustizia climatica pubblicato dall’UNEP (il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) insieme al Sabin Center for Climate Change Law della Columbia University il 27 luglio scorso. Il rapporto, nelle sue 109 pagine di analisi dei contenziosi giudiziari in materia di clima portati avanti nel mondo dal 2017 al 2022, parte da una considerazione necessaria: nonostante le misure a tutela dell’ambiente adottate negli ultimi anni da governi e Stati la crisi climatica, già in stato avanzato, invece di migliorare sta peggiorando drasticamente. “Le politiche ambientali adottate finora sono lontane dal mantenere il riscaldamento globale sotto la soglia di 1.5°C, e catastrofi ambientali e ondate di caldo mai viste stanno già colpendo il nostro pianeta” ha commentato Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’UNEP, durante la conferenza di presentazione del report “[…] Per questo, sempre più persone si stanno rivolgendo ai tribunali per combattere la crisi climatica, ritenendo i governi e il settore privato responsabili e facendo del contenzioso un meccanismo chiave per garantire l’azione per il clima e promuovere la giustizia climatica”.
La “climate litigation” nel mondo: numeri, dati e prospettive
Pubblicato a un giorno dall’anniversario della dichiarazione dell’Assemblea Generale ONU che riconosce il “diritto umano ad un ambiente salubre”, il rapporto UNEP offre una panoramica dei principali casi di contenzioso climatico portati avanti nel mondo da individui e organizzazioni. Come primo dato, il report mette in luce come queste azioni siano quasi raddoppiate rispetto al precedente rapporto ONU, passando dagli 884 casi del 2017 ai 2.180 del 31 dicembre 2022. Stando ai dati UNEP, la maggior parte delle cause è stata portata avanti negli Stati Uniti; tuttavia, il report evidenzia come il contenzioso climatico si stia progressivamente diffondendo in tutto il mondo, con circa il 17% dei casi segnalati in Paesi in via di sviluppo (particolarmente colpiti dalle conseguenze economiche e sociali della crisi climatica) e poco più del 31% delle azioni legali portate avanti in paesi dell’UE. In quest’area, sono Germania (38 casi) e Francia (22 casi) a guidare la classifica, seguite a ruota da Spagna (17 casi), Polonia (9 casi), Paesi Bassi (7 casi) e Italia (6 casi).
Particolare attenzione viene prestata, nel rapporto UNEP, alle parti in causa dei contenziosi climatici: stando alle Nazioni Unite, vi è un’alta percentuale di cause intentate da e per conto di bambini e giovani sotto i 25 anni (tra cui bambine di 7 e 9 anni rispettivamente in Pakistan e in India), così come di azioni legali a tutela della terza età (è il caso della Svizzera, dove i querelanti hanno fatto valere l’enorme impatto della crisi climatica sulle donne anziane). Dalla parte opposta, sono soprattutto governi ed imprese ad essere chiamati in giudizio: a questi si contestano, rispettivamente, l’adozione di decisioni e progetti in contrasto con gli Accordi di Parigi e la produzione di combustibili fossili ed emissioni ai danni del clima.
Quanto agli obiettivi delle “climate litigation”, l’UNEP mostra come i contenziosi climatici possano servire a diversi scopi. A seconda delle circostanze, si chiede ai tribunali di stabilire standard adottabili da governi e aziende per limitare le emissioni di gas serra, di bloccare i programmi e i progetti che potrebbero avere un impatto dannoso sul clima, di prevedere specifici rimborsi legati ai danni ambientali e di definire responsabilità penali, civili e amministrative. Precisamente, secondo il rapporto, sono sei le principali categorie di contenziosi climatici portati avanti nel mondo: davanti ai tribunali si fanno valere i diritti umani riconosciuti dal diritto internazionale e dalle costituzioni in materia di clima, si lamenta la mancata applicazione di leggi e politiche nazionali a tutela dell’ambiente, si contesta l’utilizzo smodato di combustibili fossili, si denunciano pratiche di greenwashing, e si chiede di riconoscere la responsabilità di governi e imprese per i danni ambientali dovuti alla mancata adozione di provvedimenti di contrasto al cambiamento climatico. Tra queste cause, le Nazioni Unite evidenziano come sia soprattutto lo stretto legame tra i diritti umani, l’ambiente e la giustizia ad essere fatto valere davanti agli organi giudiziari di tutto il mondo: a fronte della richiesta di una maggior tutela per i gruppi più vulnerabili della società, sempre più tribunali stanno riconoscendo l’esistenza di una specifica responsabilità in capo a governi e imprese, che devono impegnarsi a perseguire, in maniera trasparente, obiettivi più ambiziosi di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici – pena, (più o meno) ingenti risarcimenti da pagare agli aventi causa.
In chiusura, il Global Climate Litigation Report fornisce una panoramica sui possibili scenari futuri in materia di contenzioso climatico. Secondo l’UNEP, nei prossimi anni davanti ai giudici di tutto il mondo vi sarà un notevole aumento di cause relative alla responsabilità di governi e imprese a seguito di eventi metereologici estremi – come alluvioni, siccità ed esondazioni – nonché di contenziosi volti a far valere i diritti delle generazioni future e dei migranti climatici. Stando alle Nazioni Unite, infatti, a causa del continuo aggravamento delle condizioni del nostro pianeta, i giovani potrebbero subire importanti conseguenze economiche e sociali dovute ai sempre più frequenti disastri ambientali, e i migranti per motivi climatici potrebbero arrivare, entro il 2050, a 250 milioni – provenienti soprattutto da Africa occidentale, centrale e orientale, Asia Meridionale, America centrale e meridionale e Artico.
La “climate litigation” in Italia: un modello per il riconoscimento dei migranti climatici
Ed è proprio nel riconoscimento dei migranti climatici che, stando al rapporto UNEP, l’Italia si posiziona tra i paesi più avanzati in materia di giustizia per il clima. Oltre ad essere teatro di due importanti casi di “climate litigation”, segnalati dalla stessa UNEP come da tenere d’occhio per i possibili sviluppi futuri (si tratta rispettivamente della causa promossa nel 2021 con la campagna Giudizio Universale, in cui oltre 200 ricorrenti fatto causa al governo italiano per non aver intrapreso le azioni necessarie per raggiungere gli obiettivi degli Accordi di Parigi, e della “Giusta Causa” intentata dalle ONG ReCommon e Greenpeace contro Eni, che avrebbe una responsabilità nella crisi climatica con il suo uso di combustibili fossili), l’Italia rappresenta un modello da seguire per la sua giustizia in materia di giustizia climatica e migrazioni. Secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite, infatti, i giudici del nostro paese hanno dimostrato, in sempre più occasioni, di riconoscere accordare la protezione umanitaria anche a soggetti che, provenendo da paesi gravemente colpiti da disastri ambientali, non fuggivano da persecuzioni o conflitti, bensì dalle conseguenze della crisi climatica, contribuendo così alla definizione della figura del “migrante climatico”. Come riportato dall’UNEP, risale al 2021 la prima pronuncia della Corte di Cassazione in cui i giudici hanno accolto la richiesta di protezione umanitaria di un migrante che proveniva dalla regione del delta del Niger (Nigeria), ed era fuggito in Italia a causa della situazione di grave dissesto ambientale dell’area. Un anno dopo, è stato il Tribunale di Venezia a riconoscere la stessa protezione ad un 33enne proveniente dal Niger che, arrivato in Italia nel 2016 in fuga da Boko Haram, aveva fatto richiesta di protezione umanitaria adducendo anche ai devastanti alluvioni che colpivano il paese dall’agosto 2020 e che impedivano a lui e alla sua famiglia una vita in condizioni dignitose. Infine, l’8 marzo 2023, la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 6964 ha confermato questa tendenza, scegliendo di accogliere la domanda di protezione umanitaria proveniente da un uomo di nazionalità pakistana che, appena arrivato in Italia, aveva spiegato di aver dovuto lasciare il suo paese a seguito dei pesanti disastri ambientali che avevano colpito la zona del Punjab, distruggendo ciò che gli era necessario per vivere e mantenersi (citando uno studio dell’Università Sant’Anna di Pisa, la Cassazione ricorda che il Pakistan è il settimo paese al mondo più colpito dagli effetti del cambiamento climatico e che, negli ultimi 20 anni, in questo paese ci sono stati più di 150 disastri ambientali). Stando ai giudici della Corte, infatti, il pericolo di vita necessario al riconoscimento della protezione umanitaria ormai non può più essere collegato solo alla presenza di conflitti armati nel paese d’origine: al contrario, in molte aree del mondo, il diritto alla vita e ad un’esistenza dignitosa è sempre più messo a rischio “dal degrado ambientale, dal cambiamento climatico, o dallo sviluppo insostenibile dell’area, e la questione è più che mai attuale”.
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