Diritti
#metoo e la sua intrinseca e paradossale misoginia
Una lunga serie di circoscritti ‘se’ e ‘ma’ iniziano a colorare la breve storia di un movimento che, fino a qualche mese fa, rivendicava con fierezza e ferocia (virtualmente e virtuosamente) la propria monocromatica e adamantina identità.
Dopo essere inizialmente inciampati sulla figura di Cristina Garcia, avvocatessa e deputata democratica americana (accusata di molestie da alcuni suoi colleghi omosessuali), un’altra testa del #metoo sembra essere in bilico. Era l’11 Maggio 2018 quando dalle università di mezzo mondo (dalla California a New York, da Parigi a Yale) docenti di teoria del genere, storia del femminismo, letteratura comparativa e decostruzionismo firmavano la seguente lettera in difesa della loro collega, la filosofa e critica letteraria americana Avital Ronell accusata di molestie sessuali da un suo studente:
“Sebbene non abbiamo accesso al dossier riservato, tutti noi abbiamo lavorato per molti anni a stretto contatto con la professoressa Ronell e abbiamo accumulato anni di esperienza sulla sua capacità di insegnante e di ricercatrice…Tutti noi abbiamo visto quale sia il suo rapporto con gli studenti e alcuni di noi conoscono l’individuo che ha iniziato questa subdola campagna contro di lei… La sua influenza intellettuale si estende sui tutti i campi delle scienze umane, compresi gli studi sui media e la tecnologia, la teoria femminista e la letteratura comparata…Chiediamo che le sia accordato un dignitoso trattamento, giustamente meritato da chi ha una statura e una reputazione internazionale.”
Qualche mese dopo, con molta più risonanza mediatica (visto che gli idoli del pantheon della cinematografia muovono gli interessi del pubblico molto più dei docenti universitari) tutto il mondo leggeva sul Los Angeles Times del 20 Agosto a proposito dell’affaire Argento-Bennett:
“Asia Argento si è ritrovata a ricevere minacce, sotto veri e propri attacchi di cyberbullismo da profili falsi, hater e troll del web. È stata accusata di tutto quello che avrebbe potuto causare la morte del suo compagno oltre alle accuse di aver provato a utilizzare il suo status di sopravvissuta alle molestie per fare carriera”.
Cosa accade, dunque, quando ad essere accusati non sono più gli uomini ma le donne stesse che in prima linea hanno fondato e portato al successo questo movimento? Forse che le leggi del #metoo non si possano più applicare?
Agli hashtag vuoti e semplificatori con cui si incoraggiava la caccia al maschio predatore, ora si sostituiscono lettere lunghe e complesse, dove si riscoprono sfumature a nuances prima impercepibili sul web; alle bellicose filastrocche di Facebook e Twitter, ora si preferiscono le difese d’ufficio scritte da intellettuali che invocano un trattamento direttamente proporzionale alla statura della luminare in questione che viene accusata. Questo cambio di stile non ci sta risparmiando una buona dose di ipocrisia e doppiopesismo ben diffuso tra le propugnatrici del #metoo (un’eccezione tra tutte che confermi la regola? Si pensi al post di condanna scritto da Tarana Burke contro Asia Argento).
Il movimento #metoo ha sempre fatto del suo rigido moralismo post-femminista e post-fact-checking un’arma di distr(a/u)zione di massa. A partire dal loro successo sul web alla fine del 2017, le prefiche del #metoo sono riuscite a persuadere milioni di utenti che nulla sarebbe stato più facile e democratico che annientare a colpi di hashtag il patriarcato; ciò di cui non si sono rese conto (o che non hanno voluto dire) è che l’ondata di violenza verbale che si stava riflettendo sulle bacheche inferocite di milioni di utenti, avrebbe prima o poi prodotto la sua inevitabile rifrazione nella vita reale: è una legge fisica, irreversibile e del tutto naturale; per capirlo in tempo sarebbe bastato che al posto della furia cieca da setta religiosa delle leader del movimento (le cui teste sembrano cadere una dopo l’altra, vittime del loro stesso successo) si fosse stabilito fin da subito un briciolo di raziocinio e spirito critico.
Di positivo c’è che, all’orizzonte di questo mare di contraddizioni, sta affiorando finalmente un barlume di garantismo che non sembrava essere minimamente presente nel DNA delle incendiare e feroci predicatrici (ormai dimezzate) del #metoo della prima ora…
Pur trattandosi di auto-difesa, me ne felicito.
Tuttavia, la riscoperta del principio giuridico della ‘presunzione di innocenza’ arriva con troppo ritardo, dopo che troppi danni son stati fatti, dopo che troppi uomini (ahimé sono esseri umani pure loro) son stati fatti fuori da importanti cariche pubbliche (e private), umiliati, criminalizzati senza processo, calunniati virtualmente e dunque globalmente, allontanati dalla società come reietti… alcuni di loro lo hanno fatto togliendosi deliberatamente la vita: l’attore e direttore teatrale svedese Benny Fredrikkson, il deputato gallese laburista Carl Sargeant, il produttore cinematografico Jill Messick ecc.
Non è un caso che la gran parte della risonanza mediatica e di followers che si sono riempiti la bocca di #metoo sui social, siano Americani. Un paese bigotto e perbenista come gli Stati Uniti d’America è il ricettacolo perfetto di moralisti della domenica dal doppio standard e dalla doppia morale. L’Italia segue in coda come sempre, anche su questo. Mentre in paesi veramente laici e privi di questa ossessione sessuofobica, per esempio in Francia, si producono femministe e pensatrici libere, capaci di criticare questa tragica deriva puritana che si trasforma, giorno dopo giorno, sempre più in farsa (vedi le firmatarie del manifesto su Le Monde, Catherine Millet, Brigitte Lahaie, Natacha Polony ma anche scrittrici e intellettuali anglofone come Germaine Greer e Bari Weiss).
Fino a poco tempo fa, il solo fatto che, dopo 15 o 20 anni di silenzio, gruppi di attrici e cantanti, vittime di una epifania collettiva, si potessero permettere il lusso di mettere in pasto all’opinione pubblica, senza alcuna possibilità di contradditorio, né di verifica dei fatti, i nomi dei loro presunti carnefici, rappresentava un invitante banchetto per corvi. Anzi la denuncia sui social poteva persino essere considerata un’azione coraggiosa e virtuosa; un atto catartico e liberatorio che non aveva bisogno di grandi spiegazioni, di avvocati, testimoni e magistrati perché democrazia voleva che bastasse un account su Facebook o Twitter per dimostrare coraggio: perché si sa i lunghi tempi del fact-checking annoiano e rendono insostenibile l’attesa di una pedissequa ed inutile indagine per chi deve vomitare frustrazione e disprezzo quotidianamente in meno di 140 caratteri.
Singoli individui messi alla berlina per mero principio di ‘verosimiglianza’: vivendo in una società ancora troppo maschilista – circostanza difficilmente negabile, ma anche qui bisognerebbe differenziare –, il semplice fatto di essere uomini rende tutti i maschi dei potenziali predatori e tutte le loro gesta potenzialmente coercitive… anche le più innocue: qualche settimana fa Daniele Gatti, fino ad allora Chief Conductor dell’Orchestra Reale del Concertgebouw di Amsterdam, veniva licenziato tempestivamente dopo che sul Washington Post due soprani lo avevano accusato pubblicamente di ‘comportamenti inappropriati’, il tutto risalente ai tempi in cui il giovane Gatti aveva 35 anni e le vittime in questione una decina in meno (secondo le loro testimonianze, lui avrebbe tentato di sedurle nel suo camerino dopo una prova e loro si sarebbero rifiutate, dinamica tutto fuorché inappropriata poiché sembrerebbe non esserci traccia di alcuna coercizione, anche rispetto a quello che le due donne hanno dichiarato…)
E sempre per gli amanti della musica classica (perché di non solo cinema e Weinstein ci si nutre), come non ricordare l’articolo apparso sul New York Times il 5 Dicembre 2017 che invitava a boicottare i dischi di James Levine? ‘So what do I do with these commemorative collections? I won’t give them away. But I’m going to move them out of my living room.’ (‘Quindi cosa farne di questi cofanetti commemorativi? Non li getterò via. Ma li sposterò dal mio salotto.’) Come se, allontanare dal proprio soggiorno, e dunque dalla propria vista, i dischi di uno dei più illustri interpreti e direttori d’orchestra al mondo, costituisse un atto contenente una qualche rilevanza etica, un gesto di coraggiosa protesta contro la cattiveria del patriarcato. Si è vero, per dimostrare la propria quintessenza aristotelica di animale politico oggigiorno non serve più scendere in piazza, incontrare i propri interlocutori e confrontarci col reale. La nostra epoca ci offre il lusso di diventare dei campioni di femminismo standocene seduti comodamente sul nostro divano, col nostro smartphone ed una buona connessione internet: basta un hashtag! Perché non trasformare allora anche la critica musicale in guida etica? Avremo pur bisogno di qualche musicologo che ci orienti verso i dischi incisi dagli artisti dai comportamenti moralmente accettabili e ci inviti a boicottare quelli che trasgrediscono. Una sorta di fatwa all’americana, in salsa barbecue, che farebbe gola perfino ai Mutawwi’a salafiti, nostri alleati in Medioriente.
Diciamolo subito: le insinuazioni mosse contro il direttore americano sono di una gravità inaudita, soprattutto se messe a confronto con quelle che pesano sull’italiano Gatti. Levine viene sospeso dal Metropolitan Opera di New York dopo essere stato accusato, questa volta da un gruppo di musicisti maschi, di abusi sessuali che avrebbero addirittura spinto uno dei ragazzi molestati, allora quindicenne, al suicidio. Imputazioni pesanti e con un inevitabile impatto pubblico. Ma dunque Gatti-Levine: due situazioni incomparabili e che, nonostante la loro intrinseca e ovvia differente natura, vengono pompate dalla stessa ideologia. Ed è proprio questa confusione di livelli, il problema principale che traspare osservando con attenzione un movimento come quello del #metoo che dà la possibilità a chiunque di mettere sullo stesso piano presunti ‘tentativi di seduzione’, ‘atti di coercizione nei confronti di minori’ e veri e propri assalti e stupri.
In una sorta di isteria collettiva da caccia agli stregoni, l’effetto più dannoso di questa campagna da stato etico sul web, al di là delle ricadute sulle vite di singoli individui, è l’attitudine intrinsecamente e paradossalmente misogina (più che misandrica) che emerge come elemento fondativo e portante dell’ideologia del #metoo, che ne definisce la natura e ne delinea la conseguente agenda politica.
Per semplificare: #metoo non è pericoloso quando descrive gli uomini come predatori subdoli e senza scrupoli; #metoo diventa pericoloso perché le sue donne, non importa se accusatrici o accusate, sono e saranno sempre e comunque ‘vittime’ di qualcosa. Se accusatrici, vittime di una presunta molestia; se accusate, vittime di un sistema mediatico ‘patriarcale’ che le vuole dominare e sputtanare a sua volta ribaltandone la dialettica.
Non c’è nulla di più maschilista di questa rappresentazione costante della donna come di un essere umano dimezzato, intrappolata in una posa di eterna sottomissione. Vi è una buona dose di misoginia che traspare dalle difese d’ufficio messe in atto dalle avvocatesse del #metoo di questi mesi che implicitamente sostengono (senza rendersene conto) l’impossibilità ‘biologica’ o ‘sociale’ per delle donne di abusare del proprio potere (di fare come i loro colleghi maschi insomma), apparentemente perché solo gli uomini ne avrebbero le necessarie ‘qualità’.
Il femminismo dei nostri tempi avrà successo solo quando, dopo aver ottenuto l’uguaglianza tra uomo e donna in termini di virtù, riuscirà a concepire la stessa uguaglianza anche in termini di vizio. Finché ciò non sarà pienamente realizzato, più che un accusa al patriarcato, il tentativo di salvaguardare l’onore di Cristina Garcia, Asia Argento e Avital Ronell risuonerà come una tetra litania da resa delle armi.
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