Costume
C’era una volta il signor Melegatti: senza di lui non ci sarebbe il pandoro
Dura l’eredità di essere i discendenti del papà del pandoro. Le polemiche di questi giorni per un post omofobo e la confezione con la foto di Valerio Scanu forse potevano essere evitate ribadendo un concetto fondamentale: la Melegatti è il pandoro, senza Melegatti non ci sarebbe pandoro.
Il pandoro è in qualche modo un dolce inventato a tavolino, addirittura coperto da un brevetto industriale, depositato il 14 ottobre 1894 da Domenico Melegatti, pasticcere a Verona. Il pandoro è l’evoluzione di un dolce natalizio tradizionale (lo si trova ancora nelle pasticcerie scaligere), il nadalìn, che è a forma di stella, ma basso e coperto di glassa, mandorle e granella di zucchero.
A Melegatti viene l’idea di gonfiare questo dolce, in qualche modo di doparlo: aumenta le uova, il burro e il lievito, toglie tutto quello che può impedire alla pasta di alzarsi finché può (quindi niente glassa e tantomeno uvette o pinoli), lo cuoce all’interno di uno stampo perché l’impasto è tanto liquido che se ne andrebbe a spasso nel forno. Lo chiama pandoro, forse in ricordo dell’usanza rinascimentale di coprire i pani dei banchetti principeschi con una foglia d’oro, come per esempio accade a Roma nel 1473 in un banchetto offerto dal Papa in onore della figlia del re di Napoli. Un’altra versione vorrebbe che il pandoro sia una versione arricchita del Wiener Brot, forse portato a Verona dai cuochi reggimentali dei comandi austriaci, quando, fino al 1866, la città era la più importante piazza militare asburgica in Italia.
Una storia molto simile avrà, decenni dopo, il panettone, quando Angelo Motta, finita la seconda guerra mondiale, decide di gonfiare il dolce natalizio tradizionale milanese, fino a quel momento più basso rispetto all’attuale. La differenza fondamentale è che il dolce natalizio milanese si chiamava già panettone, quello veronese aveva un nome diverso rispetto a pandoro.
Domenico Melegatti è un bravissimo pasticcere, ma pure un genio del marketing: il quotidiano “L’Arena” il 21 e il 22 marzo 1894, cioè sei mesi prima che Melegatti brevettasse il suo dolce, pubblica un annuncio: «Pan d’oro. Il pasticcere Melegatti avverte la benevola e numerosissima sua clientela di aver allestito un nuovo dolce che per la sua squisitezza, leggerezza, inalterabilità e bel formato, l’autore lo reputa degno del primo posto nomandolo pan d’oro.» La principale motivazione che lo induce a depositare il brevetto è proprio evitare le imitazioni della concorrenza, qualcuno lo prende in giro satireggiando: «E l’à inventà el pandoro / e i pastissieri da la rabia muti / i l’à voludo simiotarlo tuti.» Domenico Melegatti decide di affrontare di petto i falsificatori della sua invenzione e offre la notevolissima somma (per quei tempi) di mille lire a chiunque si fosse fatto avanti con la «vera ricetta» del pandoro. Nessuno si presenta e le mille lire rimangono saldamente nel suo portafoglio. Intanto, visto che c’è, Melegatti inventa pure un forno a calore continuo per migliorare gli standard di cottura dei suoi dolci.
Tuttavia ha un cruccio che lo rode: Milano, con il suo panettone, è più ricca e ha più forza commerciale di Verona e allora che fa siòr Domenego? Porta la lotta nel cuore del territorio nemico: apre un negozio a Milano, in corso Vittorio Emanuele, a poche decine di metri da dove ha sede Le Tre Marie, al tempo il maggiore produttore di panettoni. Intuisce la forza delle vendite per corrispondenza e si attrezza per spedire pandori in tutto il mondo. Comprende l’importanza del concetto di brand e crea un marchio ben preciso, nel quale si ritrovano sempre due gattini rampanti, un tralcio di mele e con forma inconfondibile del pandoro, talvolta con una corona sovrapposta. Nei fogli di accompagnamento dei suoi dolci scrive: «Esigere su ogni pandoro Melegatti lo stemma della Casa.» Il successo del dolce veronese è clamoroso, tanto che i medici lo consigliano a convalescenti e puerpere, in quanto alimento leggero e nutriente.
Siamo tra fine Ottocento e inizi Novecento, eppure si ritrovano tutti gli elementi che dovrebbero ispirare il marketing aziendale anche ai nostri giorni. Domenico Melegatti muore nel 1914 senza lasciare eredi diretti. L’attività viene rilevata dalla nipote Irma e da suo marito, Virgilio Turco, che gestisce il negozio di Milano. Lo chiude e si precipita a Verona per occuparsi del laboratorio, ma la prima guerra mondiale limita la diffusione di un dolce che rimane pur sempre un prodotto di lusso, con ingredienti costosi e ricercati. Saranno comunque loro a trasformare l’attività da artigiana a industriale e a fare del pandoro il concorrente più temibile del panettone. L’altro signore del pandoro, Alberto Bauli, sarebbe arrivato in un secondo tempo. Oggi questi due marchi, assieme a Dal Colle e Paluani, formano a tetrarchia veronese del pandoro.
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