Diritti
L’UNESCO lo sa: il digitale ha messo sotto assedio il mondo del giornalismo
MONTEVIDEO (URUGUAY) – Oggi è la giornata internazionale della libertà della stampa, una celebrazione nata il 3 maggio 1993 in occasione della firma della dichiarazione di Windhoek, momento cruciale per l’affermarsi di una coscienza internazionale sui diritti dell’informazione.
Eppure, guardando al titolo della conferenza UNESCO tenuta in questi giorni a Montevideo, da celebrare c’è ben poco. I massimi esperti sull’argomento sono infatti in Uruguay per discutere di un fatto assai noto: il giornalismo è sotto assedio digitale.
E non si tratta solamente dell’ormai lapalissiano passaggio dal cartaceo all’online, con tutte le domande che esso comporta in termini di remunerazione e difesa dei diritti d’autore. Il nocciolo vero della questione è che censurare oggi è estremamente più facile di quanto lo fosse in passato.
Se per esempio guardiamo al Vecchio Continente, l’ultimo rapporto presentato la settimana scorsa dal Consiglio Europeo mostra, dati alla mano, che “gli operatori mediatici in Europa sono sempre più minacciati, molestati, sottoposti a sorveglianza, intimiditi, privati arbitrariamente della loro libertà, attaccati sproporzionatamente, torturati e persino uccisi a causa del loro lavoro investigativo e delle loro opinioni”. Strumenti legali sempre più raffinati permettono di silenziare voci critiche grazie ad un uso spregiudicato di una materia, quella digitale, assai poco regolata e nota alla giurisprudenza moderna. La stessa velocità di comunicazione, grazie a cui ogni contenuto può essere condiviso potenzialmente da tutti, rende il laborioso processo di verifica delle notizie un bene accessibile solo a una parte della società globale, la più ricca, la quale troppo spesso entra in conflitto con quanti sono ostaggio di campagne di propaganda mirate a minare progetti di legge contrari all’interesse dei più.
Infine, sebbene l’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sancisca la libertà d’espressione come una pietra angolare d’ogni individuo, in quanto avente diritto di opinione, espressione e informazione, in troppi oggi non godono degli strumenti idonei a garantire loro la sicurezza fisica ed economia necessaria per produrre il bene pubblico più importante per ogni società, l’informazione di qualità.
Secondo la piattaforma Europea per la sicurezza dei giornalisti, nel 2021 con un totale di 282 casi per i 35 paesi monitorati c’è stato un allarmante aumento del 41% di violazioni al diritto d’informazione. Di questi sei riguardano l’uccisione di giornalisti nell’esercizio delle loro funzioni. Numeri questi che mostrano come per alcuni paesi “la libertà d’informazione sia fondamentalmente rigettata come prerequisito democratico”.
Basti pensare allo scandalo rivelato dal progetto Pegasus. Lo scorso luglio, un gruppo di reporter coordinati da Forbidden Stories e Amnesty International’s Security Lab ha rivelato come il software Pegasus, sviluppato inizialmente dall’azienda israeliana NSO come strumento per combattere terrorismo e criminalità organizzata, sia stato in realtà usato spregiudicatamente per anni anche dai servizi di intelligence di Polonia, Ungheria e Azerbaijan per spiare i telefoni cellulari di giornalisti il cui lavoro non era gradito al governo: “90 persone, tra cui il mio taxista e i miei amici, sono stati sorvegliati perché il governo mi considera persona non grata” mi rivela la giornalista armena Khadija Ismaylova, vincitrice del premio Guglielmo Cano nel 2016.
Per fare fronte a queste minacce che rischiano di rendere imperfetto il nostro concetto di democrazia e riconoscendo l’implicita connessione esistente tra sostenere la libertà di stampa e alleviare le piaghe di guerra e povertà, l’UNESCO ha lanciato nel 2016 il Multi Donor Program on Freedom of Expression and Safety of Journalists. Tale strumento è totalmente indipendente sia nell’allocazione dei fondi che nella loro raccolta, per far sì che ogni giornalista, giudice, organo di regolamentazione o editore nel mondo possa sfruttare al massimo l’autonomia internazionale di cui gode.
Come spiega la coordinatrice del programma Ma’aly Hazzaz, le due principali traiettorie seguite grazie ai 12 milioni di dollari finora raccolti sono legate all’implementazione delle norme internazionali in quei paesi che sentono il bisogno di riformare il loro quadro giuridico-istituzionale e all’offerta di aiuto per quei media locali chiamati ad un’adeguata risposta in caso di emergenza o disastro. “Il nostro vantaggio è che la maggior parte dei nostri progetti è pesato per essere sostenibile non solo nella risposta immediata, cruciale per assicurare la sopravvivenza di quanti ci contattano in casi di emergenza, ma soprattutto nel lungo periodo. Ciò permette ai nostri partner di poter essere veramente indipendenti”.
È questo il caso del corso Journalism in a pandemic: Covering COVID-19 now and in the future offerto gratuitamente a tutti i giornalisti che desiderino comprendere come raccontare non solo la pandemia in atto ma anche i prossimi sviluppi scientifici che tanto ci riguardano quanto a volte polarizzano l’opinione pubblica, proprio in virtù della loro complessità. Oppure del progetto per sostenere le radio comunitarie in Sud Sudan; uno strumento questo che informa la cittadinanza creando anche un momento di aggregazione sociale dall’altissimo potenziale educativo.
Offrire dunque risposte adeguate a problemi tanto complessi è il ruolo delle organizzazioni sovranazionali, capaci di raccogliere una mole di dati e attori tali da unire alla visione d’insieme, la capacità operativa necessaria per avere un impatto duraturo nella realtà che abitiamo. Il libero flusso di notizie e di fondi sostenibili a sostegno della loro indipendenza è un prerequisito che, come il coordinatore UNESCO per l’Uruguay Pablo Ruiz Hiebra ha ricordato, “è un piccolo costo che un governo paga per il privilegio della libertà di espressione”, linfa vitale della democrazia.
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