Diritti
L’ultimo ostaggio
“Le nostre vite cominciano a finire il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano” (Martin Luther King)
21 aprile 2004. Mordechai Vanunu lascia dopo 18 anni la prigione di Shiqma (Israele). 11 di questi anni sono stati di completo isolamento. Trova ad accoglierlo un gruppetto di sostenitori israeliani. «Ghibor, Ghibor» (eroe), gli urlano. Per il resto di Israele invece Vanunu è soltanto un traditore, colpevole di avere rivelato nel 1986 al settimanale britannico Sunday Times i particolari della produzione militare nucleare nella centrale atomica di Dimona (deserto del Neghev).
«Sono orgoglioso di ciò che ho fatto», proclama ad alta voce. Prima salire a bordo dell’auto che lo avrebbe portato a Gerusalemme, Vanunu saluta con calore l’attrice britannica Susannah York, attiva pacifista. «Mordechai ha seguito la sua coscienza – dice York – ha compreso che doveva rivelare che nel suo paese si producono in segreto ordigni atomici. Tutti i paesi, quelli arabi e Israele, devono rinunciare alle armi di distruzione di massa. Sono qui a salutare il suo ritorno alla vita».
Nato in Marocco da una famiglia ebraica ortodossa della città di Marrakech, emigra in Israele con i parenti nel 1963.
Nel 1976 viene assunto come tecnico nucleare alla centrale di Dimona.
Israele non ha mai rivelato al mondo la reale produzione della centrale, Ha sempre proclamato la natura civile della produzione e ha aggirato con abilità ogni possibile controllo.
Ad oggi Israele non ha firmato il Trattato di non-proliferazione nucleare e non ha mai ammesso (e neanche smentito) di possedere bombe atomiche (tra 100 e 200 secondo esperti internazionali). Da decenni Israele mantiene la cosiddetta «ambiguità nucleare».
Vanunu comincia a riflettere su ciò che avviene a Dimona quando viene trasferito nel Machon 2, un complesso di sei piani sotterranei della centrale atomica dove, secondo i dati raccolti dal tecnico nucleare, sono prodotti annualmente una quarantina di chilogrammi di plutonio. Secondo il suo racconto, porta nella struttura una normale macchina fotografica, «una Pentax», e scatta segretamente 58 foto, nascondendola poi nel suo zaino che gli uomini della sicurezza non controllano perchè la sua è una presenza abituale. Vanunu è convinto dell’importanza di rivelare al mondo la produzione di ordigni atomici in Israele. Le sue domande ai diretti superiori da quel momento in poi divengono più incalzanti, i suoi dubbi generano imbarazzo tra i colleghi. Nel 1985 Vanunu è costretto a dimettersi per «instabilità psichica» e parte per l’Australia.
Si apre un capitolo decisivo della sua esistenza.
Vanunu conosce il cristianesimo con la frequenza della chiesa anglicana. Riceve il battesimo e muta il suo nome in Jhon Crossman. L’incontro con il vangelo lo convince in modo definitivo che occorre agire in nome della pace.
Proprio dall’Australia per la prima volta si mette in contatto con il Sunday Times. Giunto a Londra nell’agosto del 1986, si reca al giornale riferendo per due intere settimane i suoi segreti. Il quotidiano britannico gli firma un assegno da 300 mila dollari – mai incassato – ma esita fino al 5 ottobre a pubblicare il suo racconto. Vanunu, come nel più classico dei film di James Bond, cade in una trappola preparata da una donna affascinante, Cindy, al secolo Cheryl Ben Tov, un’agente del Mossad, per la quale perde la testa. Il sequestro avviene a Roma in un albergo dove il tecnico è attirato da Cindy per un “weekend romantico”.
Aggredito e narcotizzato viene portato in un appartamento nella periferia della capitale, trasferito a La Spezia e, imbarcato sul mercantile israeliano Tapuz, viene rispedito (in una cassa) in Israele.
Oggi sono passati ormai quasi quindici anni dalla sua uscita dal carcere, ma Mordechai Vanunu non è mai tornato alla vita. Non è ancora riuscito ad ottenere il permesso per lasciare il Paese. Nel 2015 ha celebrato il suo matrimonio con una docente universitaria norvegese, Kristin Joachimsen. Ha chiesto ripetutamente di essere lasciato libero di stabilirsi in Norvegia senza risultato.
Si aggira come un fantasma per le strade della zona araba (est) di Gerusalemme dove vive dal giorno della sua scarcerazione ospite di un immobile di proprietà del vescovo anglicano attiguo alla cattedrale di St. George. Raramente capita di vederlo in compagnia di qualcuno. Le restrizioni gli impediscono di rilasciare interviste alla stampa estera: le disposizioni prevedono l’espulsione immediata e permanente dal paese dei giornalisti stranieri che provano ad intervistarlo. Ma oggi sono ben pochi i reporter che hanno ancora interesse verso l’uomo che con coraggio, pagando con 18 anni di carcere duro, ha rivelato la produzione di ordigni atomici da parte di Israele in violazione della legalità internazionale. E con il passare degli anni l’ex tecnico della centrale di Dimona nelle strade, tra la folla, diventa sempre più una persona qualunque, uno sconosciuto, pur avendo scritto un capitolo della storia recente del Medio Oriente. Se le autorità israeliane intendevano farlo cadere nell’oblio, poco alla volta stanno raggiungendo l’obiettivo.
Anche l’Italia ha un suo ruolo in queste storia. Vanunu fu rapito dal Mossad a Roma e riportato in Israele. L’Italia, tranne una timida richiesta di spiegazioni presentata a Israele da Bettino Craxi, ha taciuto per quasi 30 anni, ignorando la palese violazione della sua sovranità territoriale da parte dei servizi segreti israeliani.
Personalmente ho verificato in più occasioni che in Italia la storia di Vanunu presso esperti della storia del Medio oriente e giornalisti, è ricordata come un’impresa che ha le sue motivazioni in scelte di spessore esclusivamente politico.
Io credo che si tratti di una vicenda umana e cristiana eccezionale.
La luce del vangelo ha ispirato Vanunu nella radicalità della sua scelta e gli ha permesso in questi anni di sopportare la solitudine a cui è condannato. Solo la chiesa anglicana lo ha aiutato. La fede lo ha sostenuto nella testimonianza della pace.
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