Diritti
Lo Stato, attraverso il calcio, finanzia ignoranza e razzismo
Il calcio italiano è razzista. Ed è una certezza che non si può confutare in alcun modo. Tanta parte della comunicazione cerca di far rientrare la spiacevole questione nella cronaca inerente alla cerchia dei soliti facinorosi. Non è così. Il problema è generale e non riguarda una determinata città e una squadra in particolare. Ogni domenica sui campi di calcio avvengono fatti incresciosi, di una stupidità e una volgarità insopportabili: cori beceri, violenti e razzisti rivolti ai calciatori delle diverse etnie. E giù “Negro, negro di merda…”, “Niente negri lalalalala-la…niente negri…” e “Sei uno zingaro…” Il calcio italiano, ben al di là della sua cifra tecnica, ne offre una morale ed etica di scarsissimo valore, certamente tra le ultime al mondo. Il fenomeno coinvolge l’intero sistema, e indicare in alcune frange di tifosi i soli responsabili di tanta schifezza sarebbe oltremodo sbagliato e limitativo. La situazione è molto peggio di quello che ci si potrebbe aspettare, e coinvolge il sistema stesso che tiene in piedi il calcio. Si pensi che finanche l’atteggiamento degli arbitri, come emerge da una ricerca eseguita da una università nordamericana sulle decisioni arbitrali in Serie A, potrebbe essere orientato a soddisfare un’ideologia dominante e, dunque, ad adottare un trattamento diverso e più punitivo nei confronti dei calciatori non bianchi. E l’episodio recente, rappresentato dal caso Lukaku, nella partita di Coppa Italia tra Juventus e Inter, ne costituirebbe un indizio esemplare. Può uno stato democratico ed evoluto finanziare una roba del genere? Eh, sì, perché il sistema calcio, oltre ai guadagni che è in grado di procurarsi in autonomia, riceve fior di quattrini dal governo. Soldi pubblici tolti alla ricerca, all’assistenza sanitaria, alle attività culturali per darli in pasto a una struttura circense che monta uno spettacolo pseudo-sportivo.
Il calcio italiano è razzista, signore e signori, e per appurarne l’assolutezza basta seguirlo con un po’ di attenzione, senza calarsi nell’imparzialità del tifoso. Chiunque se ne può accorgere e restarne disgustato, pur in assenza di una specifica competenza della materia. Anche dalle tribune, frequentate da gente in apparenza distinta e non sediziosa, piovono insulti di matrice discriminatoria. Proviamo a scendere anche nei particolari tecnici degli opinionisti e degli “esperti” del settore? Ah, sono dei geni dell’ovvietà e del luogo comune! Degli autentici fuoriclasse della parola e della grammatica! E, naturalmente, del razzismo più ideologico e stereotipato: infatti, tessono le lodi dei calciatori bianchi come abili a pensare e a organizzare le azioni di gioco, mentre lodano i neri come calciatori predisposti a opporre resistenza alle trame avversarie. Insomma, il calcio visto secondo un’ottica coloniale, dove l’atletismo del nero, fatto di forza ed energia, compensa la sua trascuratezza mentale e si pone al servizio dell’intelligenza del bianco. Tutto questo, in barba alla leggenda di Pelé e tanti altri calciatori neri di grande talento estetico e con spiccate doti di organizzazione di gioco.
Infine, il calcio è razzista perché, a quanto pare, la sua dirigenza non ha ben chiaro in mente che le differenze sono normali, ma i pregiudizi no. Dal mondo del lavoro a quello sociale e politico, per finire allo sport, in ogni sua forma il tema è sempre quello: l’odio per il diverso, anche, o forse, soprattutto, quando questi appare in una cornice di splendore che, se solo si seguisse un canone di giustezza e di valore, si sarebbe costretti ad ammirarne il talento. Ecco, nel razzismo scagliato addosso ai campioni del rettangolo di gioco, agli immigrati, ai rifugiati di guerra, ai lavoratori esuli vi è un segno sintomatico dell’Italia di oggi, refrattaria e insolente al merito e alla bravura, come alla pietà e alla solidarietà. Quel che potrebbe sembrare, a uno sguardo superficiale, un’oscena consuetudine da confinare nello spazio scenico degli orribili rituali del fenomenico tifo da stadio, è, in realtà, la versione più cruenta e tangibile di una subcultura che delinea gli atteggiamenti in ogni dove, modellando parametri di comportamento che valgono a qualificare l’inciviltà di una nazione e di un popolo. L’intero paese, per meglio dire, sembra replicare idealmente la baraonda di un immenso stadio, dove si rende lecito urlare di tutto in sfregio a ogni valore di dignità.
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