Diritti
L’ipocrisia che uccide: abbiamo tutti un video nel cassetto
Viviamo un tempo schizofrenico, in un contesto in cui il sesso è sulla bocca di tutti, in cui persino le pubblicità di montature per occhiali o del latte richiamano in modo esplicito – e sessista fra l’altro – pratiche sessuali, ma del sesso normalmente praticato non si deve parlare. Perché se fai sesso e lo dichiari, se magari ti diverti anche, se – può capitare – per gioco scatti una fotografia o giri un video, entri automaticamente a far parte del mondo della depravazione, di un universo di “perduti” che in fondo “se la sono andata a cercare”. Se sei gay non lo devi mostrare. Se sei donna e hai una vita sessuale non la devi dichiarare. Righe e righe sono state spese sui danni che questo tipo di mentalità provoca: dalla diffusione di malattie sessualmente trasmissibili a causa della “vergogna per la prevenzione” – fenomeno per cui, a una giovane ragazza, sembra più sensato mettere in pericolo la propria salute piuttosto che andare a comprare un pacchetto di preservativi – al dramma di tanti ragazzi e ragazze che, piuttosto che affrontare lo stigma sociale di un coming out vivono nell’ombra un’esistenza latitante. Tiziana non era una ragazzina. Aveva 30 anni, non i 17 di Chiara, i 14 di Carolina e i 14 e 15 dei due giovani gay romani. Tiziana aveva girato un video hard per gioco, perché il sesso è anche gioco, e semplicemente si era fidata. Tiziana non ha fatto nulla che la maggioranza dei trentenni di oggi non abbia fatto almeno una volta nella sua vita. Solo che spesso non c’è nessuna telecamera a filmare. Anche prima dell’avvento di internet le cose non andavano molto diversamente. Se in piazza si diffondeva la voce che eri andata a letto con un tale – a volte proprio perché quel tale si era vantato al bar con gli amici – diventavi la zoccola del paese. Se il vicino di casa incominciava a dire che, per essere un uomo, vestivi in modo eccessivamente ricercato, diventavi automaticamente lo zimbello del quartiere. Troia, zoccola, vacca, mignotta. Ricchione, culano, frocio, effemminato. Sopravvivevi solo se, da maschio eterosessuale, si veniva a sapere di una qualche tua avventura, diffusa comunque “di bocca in bocca”, ma con il sorriso sulle labbra perché – in fondo – “è pur sempre maschio”. Nulla che non abbiamo avuto modo di vedere scritto sulle pareti dei bagni della scuola.
A uccidere Tiziana non è stata la rete e nemmeno – anche se le sue responsabilità sono enormi – il gesto irresponsabile di chi ha diffuso il suo video. Tiziana è stata uccisa dalla solitudine provocata da un sistema per il quale nessuno può esprimerti fino in fondo vicinanza, perché il rischio è quello di diventare, a propria volta, vittima del disprezzo sociale. Un sistema omertoso e ipocrita in cui “si fa ma non si dice” e in cui ancora si discute dell’abito bianco con il quale andare all’altare (senza che la religione, fra l’altro, abbia più alcun peso effettivo al di fuori della coscienza di singoli individui). Ricordo una bellissima pubblicità progresso nella quale un professore entrava in aula e raccogliendo un preservativo chiedeva con aria inquisitoria di chi fosse. E tutta la classe si alzava rispondendo “È mio”. Non so cosa ne sia stato di quello spirito, né come mai non si riesca a superare il tabù rappresentato da una normale sessualità continuando a barcollare, in un sistema valoriale impazzito, fra una teorica quanto estrema libertà di costumi sbandierata sui media e il più becero perbenismo moralista sulla pelle delle persone vicine.
La rete in questo è solo uno strumento che rende molto più semplice e deresponsabilizzante questo movimento ondivago. Un sistema per il quale tua figlia è certamente una santa e la “mignotta” che gira video hard con il suo compagno non è evidentemente figlia di nessuno. Un sistema in cui spesso sono le stesse donne a definire troie, zoccole, puttane ragazze a loro vicine e che, con tutta probabilità, non hanno fatto nulla che loro per prime non abbiano fatto. Avendo cura di tacerlo. Di certo urge una riflessione di carattere educativo nei confronti delle nuove generazioni, sicuramente si rende necessario un percorso di maggior consapevolezza nell’uso degli strumenti offerti dalla rete, ma nessuno di questi processi può essere risolutivo se non si disinnesca, alla base, il potere deflagrante di un tabù che, fra l’altro, non ha più alcun senso di esistere. Non ci si suicida perché viene diffuso un video nel quale veniamo ripresi mentre mangiamo con aria soddisfatta un dolce, mentre dormiamo a bocca aperta al sole, mentre balliamo in maniera scomposta o cantiamo a squarciagola. Perché sono cose che fanno tutti. Forse sarebbe ora di dire che tutti facciamo sesso e che in fondo è una fortuna che sia così. Forse sarebbe ora di dirci che abbiamo tutti un video, una foto, un “testimone” nel cassetto.
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