Diritti
L’intolleranza non è (solo) un problema di numeri
Quando si affrontano politicamente temi come quello di rifugiati, rom e collettività ai margini, sembra divenuta ormai quasi una formula di rito la traduzione pressoché esclusiva della loro presenza in numeri.
Non si tratta certamente di un fenomeno nuovo, ma ultimamente è divenuto particolarmente evidente (mediaticamente parlando) per almeno due motivi.
Il primo sta dietro a una delle più discusse e recenti dichiarazioni del Ministro dell’Interno Matteo Salvini, che qualche settimana fa a TeleLombardia ha parlato di “ricognizione sui rom in Italia per vedere chi, come, quanti, ossia rifacendo quello che fu definito un censimento” al fine di espellere “i rom stranieri irregolari”, laddove invece “i rom italiani purtroppo te li devi tenere a casa”.
Il secondo sta invece nel non trascurabile fenomeno dilagante tra la controparte, quella che lui definirebbe “buonista” e che utilizza comunque spesso e volentieri lo stesso linguaggio numerico e quantitativo per dimostrare la fallacia delle sue argomentazioni: in breve, chi elargisce risposte come «numeri alla mano, rom e rifugiati sono una percentuale irrisoria nel nostro Paese» senza dilungarsi troppo oltre.
A questo proposito: avete presente quando si affronta una discussione e la si chiude con «lo dicono i numeri»?
Personalmente ho sempre pensato a quella frase un po’ come quando a un bambino che è nella fase dei «perché?» rispondi estenuata dopo la centesima domanda «perché sì».
È la sconfitta della parola e la definitiva consacrazione del nudo numero come unica strada percorribile verso il successo politico. Parlando di rifugiati, rom o persone ai margini, è un modo come un altro di cronicizzare l’emergenza portando avanti come unica argomentazione contro Salvini & co. quella che i “diversi” non siano un problema perché «non sono poi così tanti», presupponendo in questo modo che se invece lo fossero allora sì che sarebbero guai.
Non che chi faccia riferimento alle cifre sia in malafede o che sia sbagliato rimarcare che gli sbarchi siano diminuiti o che la percentuale dei rom in Italia rappresenti lo 0,04% sul totale della popolazione, sia chiaro. Il punto è che non basta ed è completamente inutile andarsi a pescare statistiche nel tentativo di combattere il razzismo con l’argomentazione che i numeri dell’accoglienza siano bassi rispetto agli altri paesi europei. Pensiamo veramente di risolverlo così l’abbandono pressoché totale del territorio da parte dello Stato? Pensiamo veramente in questo modo di mettere fine alla gestione di una questione che è in buona parte in mano alla criminalità organizzata?
È vero, restare nel campo dei numeri è spesso l’unico modo per farsi ascoltare e provare a smontare certe raccapriccianti e faziose teorie. Intento comprensibile e condivisibile, però è evidente che non abbia portato a nulla di concreto: un razzista medio a cui si forniscono soltanto dei numeri non lo convincerai mai dell’autorevolezza delle tue fonti e della profondità del ragionamento che sta dietro a quelle cifre, in primis perché quei dati sono “tuoi” e non suoi.
Far capire che questi temi richiedono innanzitutto complessità, impegno prima cognitivo e poi anche politico, credo sia la sfida più grande che ci attende nei prossimi anni. Non indicare soluzioni o risposte (apparentemente) facili, ricette già pronte e infiocchettate, semmai imparare a gestire quel disagio inevitabile che suscita il confronto con la differenza a prescindere da quanti effettivamente siano presenti sul territorio a livello macroscopico.
Quella strada che va intrapresa non può passare soltanto per un impegno emotivo all’accoglienza supportato dallo stesso linguaggio (numerico e burocratizzante) utilizzato da chi si vuole contrastare, altrimenti non lo faremo mai lo sforzo cognitivo verso l’interpretazione e non “vinceremo” mai contro chi parla alla pancia.
Certo, è molto più facile fare le guerre così: le statistiche sono rincuoranti e di fatto ci esonerano dalla complessità e dalla fatica che ne deriva dalla relazione con l’altro. Ma se oltre a lanciarci cifre a vicenda iniziassimo a conoscere davvero di chi stiamo parlando, smettendola di considerarli dei mostri abominevoli così come dei poveri cuccioli da salvare, forse ci renderemmo conto che abbiamo a che fare semplicemente con delle persone con aspettative e dignità. E che qua non si tratta né di addomesticare la differenza né tantomeno di idolatrarla, semmai di riconoscere che “inizia lì dove finisce la tua pelle”, come scriveva un grande antropologo. E di farsene una ragione.
Tocca armarsi di santa pazienza, insomma. E più che numeri, dobbiamo trovare le parole per farlo.
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