Diritti
La forza delle donne per combattere la violenza contro le donne
Ieri mattina, come sempre, ho portato il mio figlio piccolo a scuola e davanti al cancello c’era Isabella, che avvertiva tutti che quel giorno era il suo compleanno: compiva 8 anni e questo la rendeva felice. Nel pomeriggio la sua mamma, sconvolta, ha postato su Facebook un articolo su una bimba yemenita di 8 anni, morta dopo la sua prima notte di nozze con un uomo di 40. L’orrore. Uno dei commenti sotto il post diceva qualcosa come: «Lo vedi? È il tuo partito che sostiene questi mostri». All’inizio non avevo capito a che cosa si riferisse, poi ho immaginato che quella persona alludesse al Pd, colpevole di non aver mai voluto fare l’equazione “musulmani uguale violentatori, terroristi, fautori di matrimoni imposti alle bambine”.
Che questa equazione sia un errore, in certi casi strategico, mi è stato ancora più chiaro lo scorso sabato mattina, quando sono andata alla presentazione di un bellissimo progetto messo in piedi da un gruppo di agguerrite ragazze musulmane milanesi, Amina, Bianca, Chiara, Sara, Selma, Sumaya. Sono psicologhe, sociologhe, psichiatre che vogliono aiutare le donne vittime di violenza, concentrando il loro intervento in particolare all’interno del mondo islamico.
Il progetto Aisha, nome arabo che significa “colei che è viva”, è infatti sostenuto dal Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e Monza-Brianza (Caim) e prevede, per il primo anno, la formazione di mediatrici specializzate che collaboreranno con i centri antiviolenza privati e pubblici. «Trattare questi casi tra musulmani non è facile, non può farlo il mediatore generico. Esistono criticità che vanno conosciute e affrontate», sottolinea Sumaya Abdel Qader, sociologa di origine palestinese, nata a Perugia ma cresciuta a Milano. E qui sta proprio uno dei punti cruciali di questo progetto: quelle pratiche di oppressione della donna diffuse in alcune parti del mondo islamico, dal matrimonio obbligato alle mutilazioni genitali, all’idea che l’uomo possa o debba esercitare piena autorità su moglie, figlia, sorella, non hanno niente a che fare con la religione.
«Il problema non sta nell’Islam, ma nei retaggi tradizionali dei Paesi d’origine», mi spiega Sumaya, occhi verdi che spiccano sotto l’hijab colorato che le incornicia il viso. Ciò che viene attribuito all’Islam, insomma, ha un’origine spesso preislamica. Lo dice bene Patrizia Khadija Dal Monte, teologa dell’EMN-European Muslim Network, italiana, avvicinatasi al Cattolicesimo intorno ai 16 anni e poi convertita all’Islam più di vent’anni fa: «Come ebbe a dire ‘Umar Ibn Al Khattâb, parlando della propria cultura di origine: “In nome di Dio, noi vivevamo all’epoca preislamica senza accordare alcun credito alle donne, finché Dio fece scendere dei comandamenti che riconobbero loro dei diritti”».
L’intervento della Dal Monte è forte e coinvolgente, la fitta platea di Palazzo Isimbardi a Milano – donne velate, uomini dall’aria mediorientale, ma anche tanti e tante milanesi laici – alterna un silenzio assorto ad applausi liberatori. La Dal Monte fa un excursus nella storia delle varie visioni antiche del femminile, che dal pensiero greco, a quello arabo, al cinese, all’induista, condividevano la pessima considerazione in cui tenevano la donna. La teologa cita Aristotele (La natura non ha dotato la donna di alcuna disposizione intellettuale su cui si possa fare affidamento), ma anche il poeta cinese Fuchwan (Che disgrazia, è il destino della donna, niente al mondo è meno vile d’ella), e racconta della condizione di totale soggiogamento della donna nell’Arabia prima della Rivelazione. «Fu Muhamad che iniziò a diffondere la convinzione che anche alla donna dovessero essere riconosciuti dei diritti. Con Lui cominciò quindi una spinta verso l’emancipazione della donna. Il matrimonio, per esempio, viene definito come contratto che esiste attraverso il libero consenso delle parti, facendo sua una delle forme presenti in tale epoca e rifiutando altri modelli di unione coniugale, molto meno rispettosi del volere femminile, che ugualmente erano praticati allora. Eppure ci sono società musulmane che si sono staccate dai dettami della Rivelazione, dove si praticano ancora matrimoni imposti, che non derivano quindi dalla religione ma a essa vengono associati attraverso insegnamenti sbagliati».
La Dal Monte denuncia un problema di interpretazione nel mondo musulmano: «È un tema complesso, perché un avvilente letteralismo ha preso il sopravvento su quella che, guardata nel contesto in cui nacque, era una spinta del tutto emancipatoria della donna». C’è da considerare un altro fattore se si vuole intervenire su questi temi, ed è legato all’ontologica religiosità della società musulmana, dove non esiste il laicismo. «I musulmani hanno a cuore l’obbedienza a Dio e se certe pratiche sono presentate come islamiche, sarà difficile che non vengano messe in atto». Qui sta la grande responsabilità degli Imam, che sono figure importantissime in queste comunità. «Un musulmano non può prescindere dagli insegnamenti religiosi. Per parlargli, bisogna partire dai riferimenti del Corano e proprio lì ci sono spazi di libertà d’interpretazione e di cambiamento che si devono sfruttare. È questa l’unica possibilità che abbiamo di progredire».
Ecco perché nel progetto Aisha sono coinvolti anche gli Imam: «Sono loro che hanno gli elementi religiosi per spiegare ai fedeli che cosa è Islam e che cosa no. Gli imam sono una risorsa importantissima», mi dice Sumaya. «A nostra volta li formeremo su come riconoscere una violenza, come affrontare la questione, su quali sono le procedure da avviare per aiutare una donna che ne è vittima». E a proposito d’interpretazione, la Dal Monte incoraggia le donne a farsi loro stesse interpreti della parola del Profeta. «Nel progetto Aisha, le donne sono un soggetto molto attivo ed è necessario che sia così sempre: devono partecipare anche all’elaborazione teologica. Ci sono tanti versetti che riguardano le donne, tanti ahadith, e solo loro hanno la sensibilità giusta per reinterpretarli. Aisha, per esempio, moglie amatissima di Muhammad, trasmise 2.210 ahadith e non ebbe paura di criticarli. Spiegava a volte ai compagni di Muhammad che non avevano capito quello che il Profeta intendeva e li smentiva con una forza enorme». Fu lei, a sentire la Dal Monte, il primo esempio di che cosa significa essere una donna musulmana, tutto il contrario di una figura sottomessa. «Noi non siamo per un femminismo in contrapposizione all’uomo, però qualche volta bisogna anche contrapporsi».
Il fatto è che la violenza contro le donne non è solo un problema del mondo islamico, come molti vorrebbero far intendere. Altrimenti non si spiegherebbero tutti i casi di violenza che si verificano nella nostra “civilizzata” società. A guardare le statistiche c’è ben poco da stare allegri. Lo ha scritto di recente su Internazionale Oliver Roy, politologo e orientalista francese: «In Europa le violenze coniugali, spesso a sfondo sessuale, sono considerate endemiche e spesso rimangono nell’ombra (anche se non tutti i mariti si chiamano Ahmed). Negli Stati Uniti hanno suscitato scandalo gli stupri nei campus universitari (gli accusati sono quasi tutti bianchi di buona famiglia, come le vittime)». Allora contro tutti gli stereotipi, questa iniziativa pensata e voluta da un gruppo di ragazze musulmane, italiane di seconda generazione, va accolta non come un segno della presa di coscienza di un problema che riguarda loro, ma come un tassello in più nella lotta universale contro la violenza di genere, che deve essere qualcosa di condiviso tra tutti, cristiani, musulmani, laici, bianchi, neri, donne velate e donne in minigonna, senza che nessuno possa erigersi a giudice. È il minimo che dobbiamo a Isabella e a tutte le bambine di cui non conosco il nome, che hanno diritto alla vita (a una vita al riparo dalla violenza) in ogni parte di mondo.
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