Diritti
La vera sfida per Milano, atto I: alzare la voce contro la speculazione edilizia
In una città nella quale il lavoro, grazie anche al Jobs Act, torna a muoversi a ridosso e anche al di sotto del livello minimo della sussistenza, e dove gli ormai decennali processi di ristrutturazione hanno causato la dispersione nel territorio della produzione e di conseguenza di tutti quei settori di classe protagonisti nel passato delle migliori esperienze di lotta, oggi prosegue l’ulteriore espulsione delle fasce più deboli della popolazione – dal punto di vista produttivo – dal centro vivo delle relazioni sociali, la città. Fasce deboli costituite non solo dagli immigrati, non solo dall’antico proletariato cittadino ma sempre di più, anche, da ampi strati di quel lavoro culturale, o acculturato, che non riesce a trasformare la propria professionalità in un degno salario, o che comunque non riesce a contenere il costo per il mutuo o per l’affitto entro – almeno – il limite di un terzo delle proprie disponibilità. Appare evidente come questi due fattori insieme coincidano, in definitiva, con un complessivo allontanamento di questi soggetti dalla sfera della politica, qui intesa come la concreta possibilità di interessarsi davvero alla complessità istituzionale e soprattutto di ergersi a soggetto protagonista del proprio destino e del proprio immaginarlo e sognarlo.
Paradossalmente, la prima grande – e vera – ondata di occupazioni di case si registrò nelle grandi città italiane negli anni Settanta del Novecento, quando il processo di industrializzazione, al suo apice, nello stesso momento in cui si apprestava a “registrare” le grandi trasformazioni sociali che aveva prodotto si apprestava anche a imboccare la strada della sovrapproduzione (non ancora risolta) e dunque della crisi.
Il parallelo fra quel momento storico e il nostro è impietoso. In seguito allo spaventoso esodo dall’agricoltura all’industria e dalle campagne verso la città, negli anni Settanta la sfida, per le amministrazioni comunali, fu di rispondere a una pressione demografica costantemente in aumento, nello sforzo di assicurare a tutti i lavoratori immigrati e alle loro famiglie alloggi adeguati e accessibili.
Compito cui di nuovo, oggi, sono chiamate a rispondere le istituzioni cittadine, seppur in un contesto economico parecchio diverso. Eppure, il paradosso è che oggi le case non mancano, non mancherebbero almeno, dal punto di vista del patrimonio privato e forse anche di quello pubblico. Quanto al privato, interi stabili, anche di nuovissima costruzione, sono vuoti o solo in piccola parte occupati. Enormi patrimoni che ingolfano i bilanci delle società costruttrici o delle banche, che pur di non affrontare svalutazioni dalle conseguenze disastrose preferiscono assumersi il rischio di lasciarli vuoti, mantenendoli nel loro stato di abbandono e dunque di progressivo degrado.
È ovvio, non si tratta di un nodo facile o che una giunta – da sola – può provare a affrontare. È vero anche che gli stessi cittadini delle case popolari, d’altro canto, chiedono essi per primi un ritorno alla legalità ed al decoro. Tuttavia, ci si accontenterebbe di una presa di posizione chiara e decisa da questo punto di vista. Ci si accontenterebbe di giunte cittadine capaci sì di alzare la voce contro le situazioni d’illegalità negli alloggi comunali, ma di farlo anche contro la speculazione edilizia, contro lo scandalo di quelle costruzioni oggi realizzate e domani quasi abbandonate (perché risulta impossibile venderle a un prezzo di mercato fissato al momento sbagliato). Ci si accontenterebbe, soprattutto, di una gestione finalmente politica degli sgomberi. Le giunte delle grandi città non possono nascondersi dietro i soliti limiti di competenza. Il problema abitativo torni a essere affrontato secondo la giusta prospettiva: vale a dire come il problema – per definizione – delle città più moderne. Le giunte se ne facciano carico. Le giunte alzino la voce, sì, e non in una direzione soltanto.
Proprio a Milano, più di cento anni fa e all’inizio del 1910, inaugurato dal ministro Luzzatti si tenne il 1° Congresso Nazionale per le Case Popolari. Lo scopo principale – e sottotitolo dell’iniziativa – era di “includere le classi lavoratrici nella vita pubblica”; si intendeva insomma richiamare l’attenzione dei poteri pubblici “sopra il problema delle case popolari”, appunto, nei suoi aspetti più delicati, che erano e sono di ordine morale, legati cioè all’inclusione dei cittadini – tutti – nella vita sociale e politica. Ciò che senza un alloggio è impossibile fare.
Devi fare login per commentare
Accedi