Diritti

La risposta al ministro gradasso dell’Interno

1 Marzo 2023

Premessa

La dimensione del dolore e la portata storica relativa alle condizioni morali dell’umanità, che trapelano dalla tragedia al largo di Crotone, non possono essere derubricate con una crudele quanto disinformata comunicazione. Pertanto, dedico il pezzo che segue, con rispettoso disprezzo, al ministro dell’Interno della nazione. Esso è frutto di creatività, ma è basato su notizie di cronaca e approfondimenti sul tema. Credo non sia un paese evoluto quello che ha bisogno di educare all’informazione corretta i suoi ministri prima ancora che i suoi cittadini.

 

Anima I

Mi chiamo Gona, avevo vent’anni. Appartenevo all’etnia curda e combattevo l’Isis per difendere la mia terra, me stessa, il genere a cui appartenevo, la voglia di progresso e di libertà che mi veniva dall’animo. Come altre della mia generazione, sono morta sul campo di battaglia, nell’indifferenza delle democrazie occidentali, pur schierate contro il nemico che mi ha tolto la vita. Parrebbe logico abbastanza che le nazioni minacciate dallo Stato Islamico soccorressero i curdi, bombardati anche dalla Turchia, il cui governo non ne desidera la presenza all’interno del paese e mal li sopporta ai confini. E, invece, sulla vicenda del popolo curdo regna il silenzio, in una sorta di disattenzione forzata, a garanzia del disimpegno politico delle nazioni europee e della stessa ONU, che fanno davvero poco per risollevare il destino infausto e la sofferenza della mia gente, senza uno stato proprio. Ho dato la vita per una causa di speranza che riguarda un popolo intero, per migliaia di famiglie costrette a vagare per territori ostili e zone di efferati conflitti, per le donne oltraggiate e violentate da fanatici che le vogliono sottoposte e asservite, per i bambini, come mio fratello Azad, a cui la guerra ha portato via fin troppo: genitori, casa, infanzia. Sono morta per questo, non prima però, di aver raccolto tutti i risparmi di famiglia e aver messo Azad, di undici anni, su un barcone per l’Italia. “Azad”, in persiano, significa “libero”. Spero sia arrivato a destinazione. Io, purtroppo, non ho fatto in tempo per saperlo.

Anima II

Sono Aya, avevo solo otto anni, quando sono stata ferita durante un raid aereo. Piangevo disperata e gridavo “baba”. Invocavo il papà, che era con me quando una bomba ha colpito la nostra casa, nel villaggio di Talbiseh, a nord di Homs, nella Siria orientale. Credo che sul mio volto, tra un rivolo di sangue e una ferita sulla fronte, si potesse scorgere tutta la disperazione, la paura, l’angoscia di chi, innocente, come me, di fronte a Dio e agli uomini, si è vista perduta e smarrita senza colui che fino a quel momento mi aveva protetta e da cui mi sentivo amata più di qualsiasi altro. Venni soccorsa e medicata, ma neanche mi accorsi delle cure ricevute. Non erano quelle ferite a procurarmi dolore. Non era il sangue che solcava il mio viso a spaventarmi. L’ansia struggente che mi torturava mi restò dentro e non andò via, fino a quando ne morii. Nessuno mi dava notizie di mio padre, nemmeno dopo una settimana dal bombardamento. Capii, e mi lasciai andare, sebbene uno zio mi avesse trovato posto su un gommone per l’Italia, dove non sono arrivata mai.

Anima III

Il mio nome è Abdo, 22 anni, ultimo dei sopravvissuti di una famiglia interamente distrutta. I miei genitori ebbero la fortuna di morire prima di noi figli, scampando al dolore più atroce. Avevo una sorella e due fratelli, nati dopo di me. Abitavamo a Madaya, un villaggio siriano sulle montagne, a confine con il Libano, assediato da mesi dall’esercito di Damasco. Eravamo costretti alla fame dagli oppressori, mangiavamo le foglie e i fiori coltivati nei vasi di casa. Abbiamo vissuto l’orrore nella sua versione più letale e funesta. Ho visto bambini e adolescenti tentare di togliersi la vita, nel gesto disperato di porre fine a una sofferenza che perdurava da tempo. Davvero troppo per essere sopportata e in qualche maniera metabolizzata per sbaragliare la minaccia di morte che racchiudeva. Le conseguenze di ordine psicologico dovute all’incessante assedio che divora anima e cervello di chi abita quel luogo rappresentano quanto di più terribile un conflitto sia in grado di generare tra chi è costantemente attaccato, asserragliato, tenuto sotto il fuoco nemico. La pressione senza tregua per chi vive in quelle condizioni per anni è enorme, soprattutto per i bambini, che preferiscono morire perché non hanno da mangiare, perché vorrebbero fuggire e non ci riescono, perché dimenticati da Dio e dal mondo. Quando mi imbarcai per l’Italia su una vecchia scialuppa con motore, mia cugina mi affidò i suoi due piccoli, di otto e cinque anni. Quando l’imbarcazione si capovolse e affondò, a poche miglia da Lampedusa, riuscii a salvarne uno: Nadir, il più piccolo. Io, senza più forze, e l’altro cuginetto, Qasim, andammo giù. Affogammo, tenendoci per mano.

 

 

 

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