Diritti
La questione meridionale tra spot e titolisti ispirati
Squilla il telefono. Un ragazzo assorto nella lettura del quotidiano “Il Mezzogiorno” (notizia centrale: la neve al nord) inforca l’apparecchio telefonico e risponde. “Sono io. Certo che sono contento!”. Stacco sui genitori in trepidante attesa. “Assunto! Parto domani stesso” comunica il ragazzo. Obiezione materna: “Ma è natale!”. Replica del nativo precario disincantato: “Mamma… Devo!”. Irrompe il motivetto della Conad, con quel pianoforte assetato di storytelling che noi tutti ormai conosciamo da anni.
Cambio di location. La madre infila caciocavalli e tarallucci clandestinamente nella valigia del figlio, fallendo nell’impresa di chiuderla. Il partente la coglie in flagrante e disfa contrariato, estraendo il formaggio con fare brusco. “Pure il caciocavallo? Ma che natale è?” sottolinea l’indignazione materna. “Quello mi impuzzolisce tutte le camicie, ma’!” replica severo il ragazzo. Ingresso in scena del padre. Che risolve la disputa gettando in valigia una carta prepagata del supermercato: “Con questa, quando arrivi, ti compri le nostre cose e pensi a noi” – tra le righe il collaudato slogan “persone oltre le cose”. Chiusura con voce off: “A tutti i nostri ragazzi che vanno lontano Conad augura un buon natale”. Directed by Gabriele Salvatores.
Certezza cristallina da cui iniziare: ci troviamo nel Sud. In un Sud che non avrebbe mai creduto di poter essere ancora così stereotipabile, nemmeno con finalità promozionali estrinseche. Un Sud disgraziato, ma rassicurante. Ritratto come piace al Nord, a un certo Nord, o come piace a un certo Sud, abituatosi a specchiarsi, persino con punte di fierezza, nei propri cliché.
A dirla tutta, un autoritratto (il noto regista è napoletano). Un autoritratto allergico all’evoluzione culturale, al tempo in sé. Solo qualche piccola variazione rispetto all’iconografia classica. La genuinità e le madri apprensive restano in trincea, inossidabili, disciplinate, mentre il mammonismo si fa sotterraneo, la valigia non è di cartone e il gusto patriarcale ne guadagna in morbidezza.
Impensabile una madre meridionale plurilaureata. Cozzerebbe con le memorie collettive rusticheggianti inseguite con forza dagli autori dello spot, cozzerebbe con i caciocavalli, proustiani, nella fattispecie, loro malgrado. Minerebbe alla base l’empatia posticcia del consumatore, una forma di empatia su cui l’attitudine al kitsch del marketing ama investire.
Perché di un investimento si tratta, di un investimento sulla veracità meridionale concepita secondo i crismi della favoletta retrograda, con la sua potente carica simbolica pronta ad attizzare gli stomaci e i portafogli: le nostalgie sintetiche funzionano a meraviglia; i bilanci delle aziende, voce contemporanea della verità, sono illuminanti a riguardo.
Insomma, un Sud in movimento, nel suo movimento preferito, in migrazione ostinata. Con qualche titolo in più. Con una fame che comincia a farsi colta. Rassegnatosi a migrare, a scomparire. In migrazione quasi ontologica. Rassegnatosi a farsi narrare in sedi non pubblicitarie, meno edulcorate, meno provocatorie, con il lessico generico dello sradicamento.
Un Sud tascabile, ridottosi a una nebulosa alimentare consolatoria, attingibile a distanza con una strisciata di carta. Un Sud indigesto, che aguzza di professione la complessità di pensiero mai doma di alcuni ineffabili giornali nazionali: “Comandano i terroni”.
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