Diritti

«La nostra Vovchansk come Bachmut, non abbiamo più nulla»

21 Maggio 2024

Tetiana, che ha perso il marito; Alexandr, che è rimasto solo con i vestiti addosso; e George che ricorda il periodo della prima occupazione russa. Parlano gli sfollatti da Vovchansk, cuore della ultima battaglia tra russi e ucraini. E le loro storie si intrecciano a quelle dei volontari che li aiutano, capaci – nel bel mezzo di una guerra – di costruire dal nulla un centro per aiutare i più deboli dei deboli.

Kharkiv (Ucraina) – Entriamo nella sua stanza e lei, Tetiana, ci aspetta tranquilla, seduta sul suo letto. Conosco già in parte la sua storia: il marito è morto, pochi giorni fa. E francamente non so da dove partire: ha sofferto e ho paura di farle, senza volerlo, dell’altro male. Ma – penso – se ha accettato di parlare, avrà anche lei le sue ragioni per essere qui, con me. Così cominciamo: «Cos’è successo quella mattina? Mio marito stava facendo colazione, erano le otto. La casa è stata colpita da una bomba; io mi sono salvata per caso: ero in giardino…». Poi? «Sono venuti i soccorsi; mi volevano portare via, mi volevano evacuare. Ma io no, non volevo. Perché? Perché il corpo di mio marito era ancora là, bruciato, sotto le macerie… Siamo stati assieme per 60 anni, sai?»

Tetiana Bekluk

Tace, Tetiana. E mi guarda fisso negli occhi per dirmi il resto, quello che le parole non ce la fanno.

Tetiana si chiama Bekluk, ha 82 anni e aveva casa a Vovchansk: una manciata di chilometri da Kharkiv, nord est dell’Ucraina; ancor meno chilometri dal confine russo. Prima della guerra ci vivevano 17mila persone. Oggi la sua è una città quasi fantasma, terreno – da alcuni giorni, ormai – di scontri durissimi, dopo che l’esercito russo ha deciso di lanciare un attacco proprio su questa porzione di fronte. Sua figlia, che fa l’infermiera in ospedale è ancora là, a curare i feriti. O meglio: una delle sue figlie. L’altra – ecco l’altra spina nel cuore di Tetiana – ha sposato un russo, un soldato russo. «Da quando è cominciata la guerra – aggiunge, gli occhi azzurri che si fanno gelidi – non ci parliamo più». E dopo l’uccisione del marito – di papà – quel più diventerà forse un mai.

Riesce ancora a dire qualche parola sulla sua Vovchansk, dove ha vissuto una vita intera: anche lei infermiera; il marito muratore; un pezzetto di terra, come tutti, per crescere pomodori e patate. Poi si mette una mano sul petto: è davvero esausta, non ce la fa più.

Incontro Tetiana al “Velyka Rodina” che in ucraino significa Grande Famiglia: un centro che si trova a Kharkiv e ospita anziani con difficoltà a muoversi e disabili gravi: in una parola persone fragili.

Qui, sempre dalle strade diventate campi di battaglia di Vovchansk, sono arrivati da poco anche Alexandr e George. Loro ci aspettano in giardino, nonostante la giornata fredda e grigia. Alexandr è non vedente, George soffre di epilessia: non potevano stare in uno dei tanti dormitori pubblici allestiti per i rifugiati: non c’è personale per badare a loro. «Resteranno con noi finché la guerra finisce, poi si vedrà», mi dice Olga Kleytman, la persona che guida Velyka Rodina da quando è nato. Alexandr chiede qualcosa in ucraino. «Vuole sapere come funziona qui – mi traduce Olga -. E io gli ho risposto che non ci facciamo pagare, questo non è un business. Io come tanti altri sono qui da volontaria, nel mio tempo libero, visto che ho un lavoro mio e ho pure quattro figli».

La storia di Velyka Rodina – mi spiega sempre Olga, che è un architetto molto conosciuta in Ucraina – è semplice e comincia due anni fa, nel marzo del 2022, con l’invasione russa. In quei giorni, è un fuggi, fuggi generale. Chi può prende un trolley, lo riempie e scappa da una città, Kharkiv, che finisce praticamente sotto assedio. Anche gli assistenti sociali che si occupavano di persone fragili se ne vanno; mentre capita che anziani e disabili – in case a volte anche bombardate e prive di energia elettrica – rimangano soli. Ancora una volta, va in scena un copione triste e trito: è mors tua, vita mea.

I volontari della organizzazione non governativa “Through the war”, guidata da Olga, però vanno in direzione ostinata e contraria. Loro non scappano. Loro – anche nel mezzo di una guerra – cercano di costruire, invece di distruggere; di salvare, invece di uccidere. «C’era una mia amica, che non ha le gambe, che era in casa praticamente da sola. Da dieci giorni, gli assistenti sociali non la chiamavano più. É stato allora che ho deciso che di quel problema mi sarei occupata io». Grazie anche a internet, nell’area di Kharkiv, Olga e i suoi compagni di avventura scoprono ben 107 persone più o meno nelle stesse condizioni. Andare a trovare ciascuna a casa sua era un’attività complicata ed estremamente laboriosa. E così l’idea: creare una struttura ad hoc per ospitarli.

Il primo passo è trovare il posto giusto. E spunta fuori la possibilità di mettere mano sul dormitorio di una fabbrica di prodotti chimici chiusa da anni. L’edificio è messo come è messo: male, ma è ancora in piedi. I volontari di “Through the war” si rimboccano le maniche. Lavano. Sistemano. Trovano e portano i mobili necessari per partire. In poco tempo si arriva ad ospitare fino a 150 persone, in condizioni di assoluta emergenza, con la forza della disperazione. Poi il vero e proprio assedio a Kharkiv finisce. Torna in città una normalità nuova, fatta anche di allarmi aerei e bombardamenti quotidiani, certo; ma non solo. Uffici e negozi sono aperti. E anche molti di quelli che erano scappati sono già tornati a vivere stabilmente qui. E pure Velyka Rodyna vive una situazione più normale, con 50 ospiti in totale, la metà anziani e gli altri disabili più o meno gravi, che provengono da alcune delle città più martoriate da questa guerra: Bachmut, rasa praticamente al suolo; e Izyum, la città tristemente famosa per le fosse comuni; e Kupiansk, perenne teatro di guerra vicino a Kharkiv. Ma ora – con i russi di nuovo all’attacco – sono arrivati da poco Tetiana, Alexandr e George da Vovchansk; e altri probabilmente arriveranno dalle nuove zone di conflitto, da cui sono già state evacuate, la scorsa settimana, ben 10.000 persone.

Alexandr Mychaylov

«Vovchansk era già stata occupata dai russi due anni fa, e già avevano fatto dei danni. Avevano tagliato tutti gli alberi per fare delle fortificazioni», ricorda George Soldatkin, un tiro di sigaretta dietro l’altro, seduto su un divanetto. Ma stavolta è cento volte peggio: «Aviazione, artiglieria, razzi: bombardano la città 24 ore al giorno». Alexandr che di cognome fa Mychaylov, si tocca giacca, camicia e pantaloni: «Non mi è rimasto niente – dice -, giusto gli abiti che indosso». Ma si sente fortunato, comunque: «Casa mia è stata bombardata. Tutto quello che c’era dentro è andato distrutto. Ma io non c’ero, ero fuori. Quando mi hanno evacuato ero l’ultimo rimasto nella mia strada». Pausa. E poi quello che suona come un mea culpa: «Molte persone si sono rifiutate di farsi evacuare fino all’ultimo; e quando finalmente si sono decise, i volontari hanno dovuto affrontare grandi pericoli: hanno dovuto guidare sotto le bombe». Chiedo se non hanno paura che la loro città diventi come Bakmuth, il piccolo centro del Donbas raso praticamente al suolo da una battaglia durata mesi, strada per strada: «Uzge Bachmut»: è già come Bachmut, mi rispondono, la testa china.

Anche loro si stancano presto di parlare. Olga mi porta a visitare i tre piani della struttura. Quasi dietro ogni porta di questo vecchio dormitorio oggi rimesso a nuovo, sta un’altra storia dolorosa. Nela Levadnaya, un’anziana che ci fermiamo a salutare, per esempio mi racconta di aver perso il figlio soldato: «Era anche il mio migliore amico, spero di vivere ancora qualche anno solo per riuscire ad andare a visitare almeno una volta la sua tomba». Nela, però, come gli altri ha anche grossi problemi fisici: viveva a Kupiansk, vicino al fronte, e una esplosione l’ha investita in pieno; ha difficoltà a camminare.

Olga Kleytman, davanti a uno dei cantieri aperti all’interno del suo centro

«Abbiamo pazienti di ogni tipo, qui: chi ha avuto ictus, chi soffre di demenza, chi semplicemente si è rotta un’anca e per mille ragioni non è stata curata», mi spiega Christian Bain, uno degli infermieri. Christian è americano, di Chicago. Lavorava in un ospedale per veterani a Palo Alto. Ma quando è scoppiata la guerra in Ucraina, non ci ha pensato molto. Ha letteralmente mollato tutto – casa e lavoro – e seguendo i consigli di amici e conoscenti, e cavalcando le onde del destino è arrivato fino a qui, nella periferia di Kharkiv: «Quest’anno compirò 60 anni – mi dice con grande schiettezza -. E molte persone che conosco mi dicono: potresti andare in pensione, hai lavorato così tanto. Ma io voglio fare qualcosa di produttivo nella mia vita; voglio fare la differenza». E qui mi assicura si lavora bene: «Stiamo a una trentina di chilometri dal confine con la Russia, nel mezzo di una guerra. Quel che abbiamo combinato fino ad adesso è dannatamente buono e continuiamo a cercare di migliorare ogni giorno».

Olga, da bravo architetto, mi fa vedere l’ultimo mini-cantiere: stanno facendo una nuova toilette per disabili. Ma in pentola bollono, nonostante i russi che minacciano sempre più da vicino la città, mille progetti. Servono, al solito, soldi. Le chiedo se lo Stato le sta dando una mano. Lei allarga le braccia: «Ho provato a chiedere, ma mi hanno rifiutato i fondi. Facciamo tutto con donazioni private». Ma se non ci guadagna niente, lo stato la ignora e le tocca pure lavorare gratis, perché sta facendo tutto questo? Davvero solo per aiutare queste persone? «Ho un sogno». Quale, chiedo? «Vorrei trasformare questo vecchio dormitorio in un bellissimo posto e io da anziana, con mio marito, vorrei venire a stare qui», mi risponde. E nei suoi occhi azzurrissimi vedo la cosa più rara in questi giorni in Ucraina – e forse non solo in Ucraina: un po’ di speranza.

In copertina: foto area di Vovchansk, courtesy of Ukraine Crisis Media Center

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