Diritti
La memoria dimenticata. La resistenza senza armi
«Un tedesco ci chiese: “chi di voi è fascista alzi la mano”. Eravamo sempre sull’attenti e mai tale posizione fu conservata così bene. Eravamo là in duemila, avevamo fame, freddo nel cuore, nei muscoli, nella mente, con la mitraglia delle torrette puntata su di noi, ma non ci fu uno solo che abbia alzato la mano. Allora il tedesco gridò di nuovo: “Chi non è fascista alzi la mano!”. Eravamo in duemila, consapevoli che stavamo per decretarci un destino di sofferenza, forse di morte, ma tutti, non uno escluso, abbiamo alzato la mano; era una selva di braccia e in quell’istante ci siamo sentiti noi. L’ufficiale domanda ancora: “da dove vengono?”. “Da tutti i fronti” è stata la risposta» (testimonianza del sergente Domenico Lusetti, campo di Fallingbostel, 30 settembre 1943)
Nella legge 211/2000 di istituzione della Giornata della memoria per il 27 gennaio di ogni anno, accanto allo sterminio del popolo ebraico, si nominano «i deportati militari e politici italiani nei campi nazisti».
I primi nominati sono i cosidetti IMI (internati militari italiani), all’incirca 650mila soldati che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, furono catturati e deportati dai tedeschi. L’offerta di aderire alle SS o alla Repubblica di Salò ed essere rimpatriati, fu accettata solo da una piccola parte, la massa scelse di rimanere prigioniera dei lager come autentico atto di resistenza.
Furono per tutti loro anni di stenti, violenza, fame e lavoro spesso faticoso al limite della vita. Nei piani di Hitler, il disarmo e l’internamento dei militari italiani rispondeva a una logica punitiva, ma anche a un chiaro movente economico: sfruttare senza vincoli tutte le risorse umane possibili.
Questa storia non è stata riconosciuta per lungo tempo. Le vicende di questi uomini “sono state per decenni considerate una sorta di storia minore, meritevole di qualche riconoscimento, ma non di attenzione autentica né di ricerche sistematiche” (G. Rochat).
Un caso emblematico è quello del libro di Alessandro Natta, futuro segretario del PCI, intitolato L’altra resistenza che fu rifiutato nel 1954 dalla casa editrice Editori Riuniti vicina al partito e pubblicato solo nel 1996.
Si è così ignorato un contributo significativo alla resistenza del nazifascismo, operato senza armi. La scelta di questi uomini privò l’esercito tedesco e quello della Repubblica di Salò di un considerevole numero di soldati, spesso ben addestrati, per l’impiego al fronte o al presidio del territorio. Mise in discussione la residua credibilità di Mussolini e del suo tentativo disperato di restaurare il fascismo, agli occhi degli italiani, visto che un numero così considerevole di soldati rifiutava la divisa. Accrebbe l’odio della popolazione verso i tedeschi percepiti non più come alleati, ma come occupanti, a maggior ragione visto che trattenevano prigionieri militari italiani che rifiutavano di combattere al loro fianco.
Tra di loro vi fu lo scrittore Giovannino Guareschi che li battezzò i “volontari dei lager”. Il prezzo pagato fu altissimo in termini di privazioni, sofferenze, per molti anche la vita. Un censimento ha accertato che furono 50.834 i caduti di questa carcerazione durissima (malattia, deperimento, bombardamenti, percosse e fucilazioni).
Fu per tutti certo una maturazione decisiva ai valori della libertà, della democrazia e della non violenza che li prepareranno alla ricostruzione materiale, istituzionale, civile e sociale del paese nel dopoguerra.
Tra le personalità che furono IMI e che contribuirono alla crescita democratica dell’Italia post bellica vi furono: Pino Arpioni, Giuseppe Avolio, Ernesto Caroli, Antonio Cederna, Paolo Desana, Giovanni Giovannini, Vittorio Emanuele Giuntella, Giovannino Guareschi, Tonino Guerra, Giuseppe Lazzati, Gino Marinuzzi, Antonino Meli, Alessandro Natta, Raffaele Pisu, Edilio Rusconi, Mario Rigoni Stern, Luciano Salce, Luigi Silori ,Gianrico Tedeschi.
Il sottotenente romano Carmelo Cappuccio, così scrisse alla moglie l’8 gennaio 1944, dal campo di Beniaminowo, in Polonia: «Questa è la prima volta, dopo vent’anni, che possiamo decidere di noi. Ogni preoccupazione familiare, ogni timore piccolo è ormai superato nella grandezza della nostra miseria. Da una parte vi è la forza bruta che ha fatto della violenza una dottrina, sicura che la morte e il dolore rendano servi gli uomini, dall’altra, una volontà che non vuole cedere, una libertà che intende pesare di più, con i suoi ideali, delle baionette e della morte. Se cedessimo, io sento che la vita mi sarebbe ormai inutile, e si spezzerebbe la forza che alimenta la mia esistenza: non potrei più credere nella libertà dell’uomo: ogni ideale mi diverrebbe ombra inconsistente, l’uomo stesso un ultimo rampollo di antiche scimmie. Bisognerà morire, ma non cedere. Compagna mia cara, che forse piangi sulla mia lontananza, veglia sul nostro bambino: e se io non torno, insegnagli tu ad essere uomo, come non lo siamo stati per vent’anni, ma come lo saranno in questa deserta pianura polacca questi italiani smagriti e stracciati».
Le citazioni e i numeri vengono dal libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi (1943-1945), pubblicato da il Mulino nel 2020 (!)
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