Diritti
La guerra? La guerra è, in primo luogo, un uomo che uccide un altro uomo
Questa affermazione del titolo – a dire il vero assai semplificata – usata una volta da Giorgio Celli (1935-2011), entomologo ed ex parlamentare europeo per i Verdi, ci torna utile per una riflessione più meditata e meno impressionistica degli eventi di questo periodo; mossi – questa è l’intenzione – dall’esigenza di andare oltre le tante immagini di morte e devastazione che ci arrivano dal fronte, i drammatici resoconti dei reporter, i dibattiti televisivi spesso ripetitivi nel confronto delle opinioni. Un ripensamento che trovi spazio in un silenzio dentro di sé e proceda con più rigore sui motivi scatenanti delle guerre in generale, prima di soffermarsi sulla guerra russo-ucraina ora in corso.
L’etologo Konrad Lorenz nei suoi studi afferma che uccidere l’altro non si configura come fatto “normale” tra animali della stessa specie. Tra di essi si attivano meccanismi, fissati nel corso della filogenesi della vita comunitaria a garanzia della sopravvivenza della specie, che egli chiama di “ritualizzazione”, idonei a limitare la pericolosità delle pulsioni aggressive dei contendenti.
Ad esempio: il lupo vincitore non azzanna a morte il lupo sopraffatto che gli offre, in atto di sottomissione, la gola ma lo lascia andar via incolume; il daino che cozzando le corna con l’avversario lo trova scoperto su un fianco non gliele infila in quella parte che lo porterebbe a morte ma lo lascia ritornare in posizione frontale per una ripresa dell’assalto. La pacificazione finale è un momento assai importante che permette l’instaurazione di vincoli personali all’interno delle società animali.
Nell’uomo si è verificato uno scollamento tra la evoluzione filogenetica per il controllo dell’aggressività, avvenuta nel corso di migliaia di anni, e la rapida messa a punto di strumenti offensivi assai performanti a distanza rispetto alla spazialità del corpo. La guerra nella modernità è totalmente “deritualizzata” a causa dello sviluppo di armi comandate dalla semplice pressione di un grilletto o di un pulsante, dalla carica di un pezzo di artiglieria, fino ai sofisticati traguardi tecnologici delle armi autonome, quali i droni. Abissale la distanza dell’operatore rispetto all’obiettivo colpito dall’arma, altrettanto complicata la definizione delle responsabilità dell’atto di guerra: il singolo militare, la cabina di comando, il ministro competente, il capo del governo?
Jared Diamond in Armi, acciaio e malattie sostiene che i legami di parentela, solidarietà alleanza nelle tribù primitive erano così forti che in momenti di conflitto l’intervento di parenti e affini era propizio per contrastare lo scoppio della violenza. Così nelle società tradizionali della Nuova Guinea al momento dell’incontro fuori del villaggio di due sconosciuti iniziava «una lunga discussione per cercare di stabilire se avessero qualche parente o amico in comune, e quindi una valida ragione per cui l’uno non dovesse uccidere l’altro» (p.214). Le cose sono cambiate con la crescente complessità dei dispositivi di integrazione sociale fino alla formazione degli stati in competizione tra loro.
La guerra allora non è per nulla nella genetica dell’uomo, ma è frutto delle sue sovrastrutture, in primo luogo politiche, oltre che culturali, sociali, economiche, che portano alla manipolazione delle coscienze, all’indottrinamento ideologico e all’ossessiva affermazione del potere, all’esaltazione del capo e alla demonizzazione dell’altro. Sono questi i presupposti che, depositati sui fondali delle coscienze della collettività, emergono in certi momenti della storia di uno stato e portano alla guerra.
Come denunciare e smontare queste sovrastrutture, ce lo ha suggerito Platone. Quando voleva dare forza persuasiva alle sue asserzioni ricorreva ai miti e attraverso questi veicolava la sua verità, come nel famoso mito della caverna dove gli uomini sono schiavi incatenati che vedono sul fondo della caverna ombre scambiate per cose reali mentre sono solo proiezioni di oggetti esibiti alle loro spalle. Solo chi si libera dalle catene, esce all’esterno, prende le distanze dal buio e, tornando alla luce, comprende il vero mondo e l’inganno di chi è rimasto nell’oscurità. Occorre raccogliere l’invito platonico, liberarsi dalle catene delle attuali sovrastrutture generanti la guerra per prendere le distanze dai miti che la generano e dalle componenti che la alimentano, quali odi, aggressioni, sopraffazioni, razzismi.
Dire la verità sui motivi profondi della guerra, da cui derivano gli eventi contingenti delle molteplici guerre che infestano il mondo – un primo sommario resoconto parla di almeno 59 conflitti armati odierni con centinaia di migliaia di morti – implica un sorta di rivoluzione culturale. Si tratta di un vero soprassalto del pensare che riabiliti i valori della convivenza e stabilisca con quali priorità organizzarla. Per il mondo ideale di Platone si tratta della idea del Bene da affermare, per il mondo reale in cui noi viviamo è l’idea della accessibilità dei beni di giustizia, eguaglianza, libertà, solidarietà per gli esseri umani – ovunque e per tutti -, questi gli ingredienti della pace.
Certo, da riflessioni generali non si traggono risposte univoche e inconfutabili dalle domande angoscianti che la guerra in Ucraina ci pone: quali sono le premesse dalle quali muovono i contendenti? Che tipo di aiuti dare agli assaliti e quali sanzioni agli aggressori? I rischi di una Terza guerra mondiale – ancor più fatte da chi dispone di testate nucleari – sono tali da imporre compromessi negoziali a scapito della libertà e indipendenza di un popolo?
È noto che i principi teorici non garantiscono soluzioni certe e condivise da tutti. Ma allora ritorniamo a ribadire la prima risposta, quella iniziale sulla domanda che cosa sia la guerra: che la guerra è, in primo luogo, un uomo che ne uccide un altro, che dunque questo è negazione della vita, che contro questo evento bisogna insorgere, che la rassegnazione del dire che tanto le guerre ci sono sempre state e sempre ci saranno è una diserzione della coscienza, che rimanere umani è un diritto, che cominciare a esserlo è un dovere.
Motivare la pace è in ogni caso l’antidoto da mettere in campo contro la guerra sia per le ineluttabili stragi di civili che per l’ecatombe ecologica del territorio in cui si combatte.
La pace – ci dice Kant – è una idea “regolativa” a cui tendere in linea di principio, consapevoli che la sua realizzabilità nel corso della storia è una conquista mai immediata e definitiva.
Termino con una citazione che potrebbe sembrare solo un brillante gioco retorico ma che rivela una schietta verità. Si trova in Simplicity and Complexity in Games of the Intellect, dell’americano Larry Slobodkin, ecologo e studioso di storia naturale: «Se per qualche curioso motivo legale fosse necessario tracciare una linea tra umano e non umano – per esempio se comparisse un gruppo di australopiteci e si dovesse decidere se vanno tutelati dalla Protezione animali o dal Dipartimento dell’Immigrazione – sarei lieto di accoglierli fra gli umani se sapessi che si preoccupano seriamente di come seppellire i loro morti». In giorni in cui apprendiamo che le circostanze portano a sigillare i cadaveri in sacchi di plastica o a bruciarli in grandi fornaci, dirci esseri umani richiede, almeno, la pietà della sepoltura. Lo si è chiamato il culto dei defunti ed è stato praticato dai nostri antenati fin dai primi albori della civiltà.
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