Diritti
La disabilità del politicamente corretto
Caro Cigno Nero,
l’altro giorno, recandomi ad un appuntamento in compagnia della mia bimba mi è capitato (complici la fretta e la striscia sterminata di parcheggi liberi) di parcheggiare nel posto riservato ai disabili (“diversamente abili”?). Appena sceso me ne sono accorto e ovviamente l’ho spostata, facendolo notare a mia figlia. Da quello spunto poi ho avuto modo di riflettere: ho pensato che forse non avrei arrecato chissà quale danno all’avente diritto, vista la disponibilità elevatissima di posti, ma probabilmente lo avrei arrecato al futuro, non coinvolgendo mia figlia nella correzione dell’errore.
Da qui altra riflessione: basta insegnare l’educazione civica senza i buoni esempi della famiglia, della TV e dei media in generale? Sentiamo inveire con termini che riguardano la disabilità, sia per strada, ma ancor peggio in molti programmi tv pieni di “artisti senz’arte”.
Allora meglio cominciare a dare il buon esempio alle generazioni future da subito, perché non basta dire “diversamente abili” per sentirsi a posto. Sembra ci sia tanta attenzione ai termini e alla forma, ma che poi, in sostanza, ad esempio, per troppi, gli insegnanti di sostegno vengono visti come semplici accompagnatori, come se alcuni alunni non avessero diritto a “sapere”. A proposito quindi del tema della disabilità nella società, e dell’ipocrisia verso tutti quelli ritenuti “diversi”, mi chiedo,: non è che ci siamo illusi che basti il “politicamente corretto”? È sufficiente dire “diversamente abile (o “omosessuale” o “di colore”) per pulirsi la coscienza?
M. D. B.
Caro M.B.D.,
le parole come i gesti “fanno mondo”, perché entrambi pertengono all’azione, nel senso politico arendtiano. Per la pensatrice, infatti, «la sfera politica sorge direttamente (…) dal “condividere parole e azioni”». Riprendendo da Aristotele la natura sociale delle parole e definendo l’agire nella sua peculiarità pubblica ‒ che la contraddistingue da altre attività, come il “fabbricare”, ad esempio ‒, Arendt ci aiuta a ripensare la forbice tra teoria e pratica, linguaggio e azione, forma e sostanza. Fai riferimento un po’ a questo quando contrapponi una questione formale, come il politicamente corretto “diversamente abile”, a una questione sostanziale, come l’occupazione di un parcheggio riservato.
I due aspetti sono più connessi di quanto sembrerebbe e per accorgercene basta pensare ai bambini che cominciano a parlare. Ascoltando le voci di casa non imparano solo la forma delle parole, ma ne apprendono connotazione e collocazione, scoprendo che esse non sono mai innocue. Per intenderci, se per insultare qualcuno sentono ricorrere a infelici epiteti che richiamano la disabilità, accadranno poi “cose” sul piano sostanziale: useranno il medesimo termine per insultare anche qualcun altro e si sentiranno legittimati a comportarsi in maniera irrispettosa verso quella persona.
Non tutti i bambini hanno la fortuna di buoni esempi, ma tutti hanno il diritto di andare a scuola. La scuola per loro è il primo luogo del diritto, perché tutti hanno diritto al sapere. E la prima cosa che si sa, che si deve sapere, sono i compagni. La classe è il loro mondo in miniatura, fatto delle differenze che sono il valore della vita in comune. Se non è accaduto prima, proprio a scuola si entra in relazione con la disabilità, e allora ci si accorge che le parole giuste mancano, perché le categorie sono insufficienti per chiamare il compagno e la compagna di classe. Si scopre quindi un fatto importante, e cioè che i significati dati alle parole fino a quel momento possono essere rinegoziati alla luce dell’esperienza condivisa, perché forma e sostanza vadano insieme. Gli studenti in fondo non chiedono che questo, che poi è un modo della verità. I problemi sorgono quando l’aspettativa che loro hanno nei confronti della scuola è disattesa, nonostante lo sforzo dell’istituzione scolastica nel trovare le giuste parole e farle corrispondere alle buone pratiche. Così, nonostante ICF e Profili di Funzionamento, ancora troppi genitori non vedono tutelato il diritto al sapere dei figli se manca l’insegnante di sostegno; troppi insegnanti di sostegno non vengono visti come insegnanti. E poi, che ne è della parola magica “’inclusione” all’università, quando, assolto l’obbligo scolastico, si tratta di continuare gli studi al fine di diventare professionisti?
Fai riferimento all’educazione civica, oggi presente nell’istruzione di ogni ordine e grado, ma è chiaro che non può limitarsi a materia da insegnare, come giustamente osservi: deve invece farsi pratica, in quanto è essenzialmente “etica”, fondandosi sulla condivisione dei valori in cui una comunità si riconosce.
Educare i cittadini significa educare ed educarsi alla convivenza civile che, come tutte le convivenze, porta allo scontro laddove entrano in conflitto bisogni e interessi delle singole parti. E l’aspetto etico di questa educazione può originare solo dal sentirsi parte di una comunità. Ma proprio su quel famoso “politicamente corretto” abbiamo costruito categorie più che fare comunità, con l’uso di termini “neutri”, come “diversamente abile”. Quest’ultima è una formula che abbiamo trovato in sostituzione della nostra incapacità di vedere ogni singola disabilità e di saperci rapportare a tutto ciò che è altro da noi. Perché la parola “disabile” ad un certo punto non ci è andata più bene? L’abbiamo trovata offensiva da non-disabili, e da non-disabili l’abbiamo imposta a chi con la disabilità convive. Tuttavia, proprio quel “diversamente”, volendo annullare una differenza, non fa che sottolinearla, perché ci chiede un “da chi?”. Volendo appiattire le differenze, abbiamo diluito le specificità di ogni individuo. La persona disabile non coincide mai totalmente con la sua disabilità. La sua disabilità ‒ a fare qualcosa di preciso e non a essere una persona ‒ però è una questione che riguarda (anche) la comunità, e di cui la società dovrebbe occuparsi attraverso tutti quegli interventi che possono permettergli di accedere a servizi, strutture e garantirgli pari diritti e opportunità (e, invece, anche una questione naturale come il vivere la propria sessualità ha sollevato diverse polemiche, a testimonianza di che abisso può esserci tra forma e sostanza). Il “politicamente corretto”, nel suo voler cancellare tutto ciò che “sa” di scorretto, non ci fa i conti veramente, rischiando di ridursi a una forma di ipocrisia con cui ci autoassolve.
Questo non succede solo con i “diversamente abili”, ma ogni volta che, di fronte a un problema, cerchiamo scorciatoie per semplificarci la vita.
Di qui tutta la nostra attenzione ai colori, dai bancomat “arcobaleno” alle quote “rosa”, dal ritiro dei prodotti “sbiancanti” alla censura di film offensivi per i “neri”, iniziative che però alla fine sembrano essere solo un modo di sviare da una resa dei conti con la storia dell’inclusione, che se vuole essere tale non può lasciare indietro la sostanza in nome della forma.
Come sempre è questione di prospettive. E, tornando alla disabilità, se ci mettiamo nell’ottica utilitaristica del nostro mondo-capitale, Nussbaum sottolinea come l’improduttività che il senso comune lega al disabile «non è “naturale”: è il prodotto di misure sociali discriminatorie». Allora la filosofa, seguendo l’idea di Amartya Sen, vede l’urgenza di pensare da un altro punto di vista, quello autenticamente umano, che non è mai strumentale perché guarda alle persone come fine. In questa scena si inscrive il suo modo di concepire il rapporto tra disabilità e giustizia sociale: Nussbaum va alla ricerca delle capacità che stanno alla base di ciascuna esistenza e che, a differenza dei funzionamenti, non sono un mezzo per raggiungere qualcosa, ma hanno valore in sé. Riscrive allora una carta dei diritti universale, fondata sulle capacità che ciascuno deve poter perseguire per una vita degna: sono la vita e il gioco, la salute e l’espressione, l’immaginazione e i sentimenti – per citarne alcuni- a dover essere “costituzionali”, perché molto più umani del profitto. E i disabili, sono portatori della medesima umanità, quindi del medesimo diritto.
Ripensare la nostra vita alla luce di questi principi potrebbe fare la differenza tra “pulirsi la coscienza” e farne una “questione di coscienza”?
Irene Merlini e Maria Luisa Petruccelli
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