Diritti

Sentenza Karadzic, il Tribunale dell’Aja non è più un porto delle nebbie

26 Marzo 2016

Radovan Karadzic, leader dei serbi di Bosnia durante il conflitto degli anni Novanta, è stato condannato in primo grado a 40 anni di carcere per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Questa è una buona notizia, anche a fronte dell’annuncio del team di difesa dello psichiatra – con ambizioni da poeta – di fare ricorso in appello. Perché, finalmente, per quanto possa sembrare quasi irrisorio il periodo di reclusione inflitto a fronte dell’enormità dei crimini commessi, almeno c’è una sentenza. Ed è arrivata con l’imputato alla sbarra.

Sembra poco? A ben guardare il lavoro del Tribunale Penale Internazionale, che ha inglobato il Tribunale per il conflitto nella ex-Jugoslavia, è forse il primo risultato pratico. Perché ad oggi, per tanti motivi, la sede dell’Aja era sempre più sembrata una sorta di porto delle nebbie.

Andiamo con ordine. Questa sentenza non è perfetta, perché il genocidio resta circoscritto alla municipalità di Srebrenica. E, come si diceva, a fronte di accuse enormi, 40 anni di condanna fanno impressione. Però, come ha scritto in un ottimo articolo per EastJournal Alfredo Sasso, resta – anche online – un enorme mole di documenti che serviranno alla storia per dire che questo è stato, è accaduto davvero, nell’Europa indifferente.

Detto questo, ed è importante, siamo al primo risultato di un certo peso di una struttura enorme, forse elefantiaca, che è costata una montagna di denaro partorendo – almeno fino alla sentenza Karadzic – un topolino.

Il caso più lampante in questo senso è quello di Slobodan Milosevic. Il burattinaio dei vari Karadzic, che li ha usati e poi scaricati, che ha portato la Jugoslavia alla dissoluzione e alla guerra, e poi il Kosovo e così via, è morto in custodia al tribunale l’11 marzo 2006. Infarto, per l’autopsia. Un processo che si era trasformato in un comizio politico e un’uscita di scena a uso e consumo dei suoi sostenitori, nessuna sentenza.

Pochi giorni prima, il 5 marzo 2006, si era tolto la vita, sempre in custodia al Tpi,  Milan Babic, leader dei serbi di Croazia durante il conflitto. Babic si è impiccato nella cella dove scontava una condanna – patteggiata  – a tredici anni di reclusione. E ancora ombre, possibilità dei nazionalisti di ricamare fantasiose versioni, ancora storie che finivano in una dimensione politica più che giudiziaria.

Più recentemente, c’è stato il caso di Voijslav Seselj, ultranazionalista serbo, estradato all’Aja nel 2003 per omicidio, atti inumani, persecuzioni per motivi politici, razziali e religiosi, sterminio e attacchi contro civili nei territori di Croazia e Bosnia Erzegovina durante la guerra degli anni Novanta. Il 12 ottobre 2014 a causa del suo stato di salute è stato rilasciato temporaneamente dal Tribunale ed è tornato in Serbia per curarsi.

Solo che Seselj, appena tornato a casa per i sei mesi di vita che gli restavano, almeno a sentire i medici, si è rimesso a far politica e a sparare ogni giorno le sue bordate cariche di odio razziale, mettendo in grande imbarazzo le istituzioni serbe che hanno compiuto tanti passi avanti e che si ritrovano tra i piedi un personaggio di questo calibro.

Anche in Croazia non si scherza. L’assoluzione in appello del generale Ante Gotovina ha, all’epoca, lasciato a bocca aperta tanti osservatori. E ha rinfocolato le accuse – da parte serba – di un tribunale ‘politico’ e a senso unico. Il generale Gotovina venne catturato in Spagna, latitante, nel 2005. Condannato in primo grado nel settembre 2010 a 24 anni di reclusione per crimini contro l’umanità e violazione delle leggi e dei costumi di guerra e per aver fatto parte di una associazione a delinquere finalizzata all’espulsione della popolazione serba in Croazia, venne assolto in appello nel 2012.

IL WEBDOC SUI DESAPARECIDOS SERBI DURANTE LA GUERRA IN KOSOVO 1999 DI CHRISTIAN ELIA, NICOLA SESSA E GIANLUCA CECERE

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Altro fascicolo arenato è quello della leadership albanese kosovara rispetto al conflitto del 1999. È il caso di Ramush Haradinaj, comandante dell’Uck, imprigionato all’Aja con 37 capi di accusa molto pesanti per crimini contro i civili serbi in Kosovo. Il procuratore capo dell’epoca, Carla Del Ponte, accusò la comunità internazionale di aver sabotato dall’inizio il processo. I testimoni chiave del processo Haradinaj ritrattavano, morivano, scomparivano, in un clima di intimidazione impunita. Alla fine venne assolto e la procura tentò di ricorrere in appello contro la sentenza, ma senza ottenere nulla.

La vita del Tribunale speciale per la ex-Jugoslavia, istituito il 25 maggio 1993 con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, cessò le sue attività nel 2010. Ha sempre e solo potuto processare singoli individui, non stati, e commutare come pena massima l’ergastolo. Oggi è confluito nel Tribunale penale internazionale, istituito con lo Statuto di Roma, ereditando i casi di Ratko Mladic, Radovan Karadzic e Ante Gotovina.

Nel 2006, il Tribunale dichiara che gli incriminati sono 161, 124 sono stati già processati: 43 dichiarati colpevoli, 8 assolti, 25 scagionati dalle accuse, 4 trasferiti alle rispettive corti statali e 6 nel frattempo deceduti. 37 processi sono ancora in fase di svolgimento. A fronte di uno staff di 1200 persone e di enormi costi di gestione.

Per tutto questo è importante la sentenza Karadzic: ma solo se la si considera un punto di partenza, non un punto di arrivo. Perché solo quando la giustizia internazionale verrà dotata di mezzi indipendenti, svincolati dall’agenda politica, potrà rappresentare un punto di riferimento per le vittime di crimini osceni.

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Nella foto, Radovan Karadzic

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