Diritti

La casa prigione di Gjurakoc

11 Maggio 2015

Ai piedi delle montagne di Prokletije, che separano Kosovo e Montenegro, la pianura verdissima di Mitohija si estende per chilometri. Il cielo nero e carico di fulmini che ci accoglie nel piccolo comune di Gjurakoc inizia a scrosciare un’acqua torrenziale poco prima dell’arrivo del nostro autobus, rendendo il verde attorno ancora più vivido.

Le case sono state ricostruite in fretta e furia nel dopo guerra, per lo più senza intonaco, ma proprio nel centro di Gjurakoc alcune antiche rovine sono rimaste in piedi. Di fronte agli uffici municipali una chiesa ortodossa del 1362 è quasi del tutto intatta. È nascosta dagli alberi, ma il mattone antico, anche se rintanato dietro le fronde degli alberi, crea meraviglia se accostato al giallo calcestruzzo della maggioranza delle case. Dietro alla chiesa, altri edifici sono sopravvissuti alla guerra: quelli di una vecchia prigione servita da centro correttivo e di reintegro fino al 1999.

Nonostante i segni evidenti dei bombardamenti abbiano lasciato l’edificio semi distrutto, la carcassa della prigione è stata trasformata in rifugio per intere famiglie di sfollati. Il rudere pulsa di vita propria, in un continuo via vai silenzioso di donne, uomini e bambini.

La squadra slovena di Kfor, che da un mese si occupa della zona, e il capitano D’Angelo del contingente italiano, ci scortano fino all’ingresso principale della prigione e ci presentano agli “inquilini”. Nella danza degli incontri, cala uno sguardo perlustratore. Sandra tiene in braccio suo figlio e ci guarda senza timore sostenuta dalle quattro donne che le stanno a fianco. Non appena le squadre di Kfor se ne vanno, le donne si lasciano andare e ci accompagnano tra i corridoi del carcere per visitare le celle arredate e abitate da ormai 15 anni.

Si tappano il naso mentre ci mostrano la profonda crepa nel pavimento in cui scende ininterrottamente lo scarico del bagno. L’acqua entra ovunque, dalla fogna e dal soffitto, e le perdite si riversano a fiotti sul pavimento impregnando di un tanfo maleodorante le pareti dell’intero edificio. Quando piove, le crepe scavate nei muri zampillano.

In alcune celle non ci sono più le porte e per creare un minimo d’intimità famigliare, le donne hanno montato delle tende che separano la vista, ma non l’odore, che fuoriesce dal corridoio. Negli anni sono riuscite a racimolare lo stretto necessario per vivere in stanze minuscole e, totalmente abbandonate a sé stesse, hanno trovato nella comunità del penitenziario l’unica risorsa per poter andare avanti. Non si conoscevano prima. C’è chi era sfollato in Serbia, chi in Svizzera, chi semplicemente qualche villaggio più in là. Anche nelle origini non hanno alcun legame: albanesi, Rom, o “egiziani” – questi ultimi sono un gruppo rom che non parla rom ma serbo. Niente le lega se non la triste condizione di essere state abbandonate da tutti: dai mariti, dai fratelli, dall’assistenza sociale, dal comune. Da tutti.

Sekibe si improvvisa interprete e traduce le storie delle quattro donne con cui parliamo. Ha imparato l’inglese da sola guardando la televisione. Suo figlio è a scuola per il momento, lui è l’unica cosa che l’è rimasta al mondo. Ci porta al piano di sopra per una scaletta sgangherata che sale a fatica, zoppicando a causa delle cure mancatele dopo un incidente. Al piano di sopra alcune parti del penitenziario sono crollate, altre sono chiuse con le sbarre dai tempi in cui la prigione era ancora attiva.

Ci guida nell’ala più remota della prigione per presentarci Shefkije, che nel frattempo era salita per assettare la casa e ravvivarsi i vestiti. Quest’ultima, mentre prepara il caffè, con dolcezza nasconde un filo di vergogna per la sua magrezza, ma non appena tornano i suoi figli a casa da scuola, esplode in una risata raggiante guardando sua figlia alta e forte. Non smette mai di giocherellare con l’inalatore mentre racconta della sua famiglia. L’asma le è venuta da quando si è trasferita nel penitenziario e anche i figli soffrono di varie malattie respiratorie. Non sanno dove altro andare, non possono permettersi di comprare i materiali per aggiustare le fogne a cielo aperto e tantomeno di pagare le cure necessarie per le malattie provocate dal freddo e dalle scarse condizioni igieniche.

I mariti sono partiti da anni in cerca di speranza, in Germania, in Svizzera o in Italia, cancellando dalla loro memoria le famiglie che hanno lasciato in Kosovo.

Sole e in tanti casi senza nessun tipo di entrate, contano i secondi, i minuti e le ore. Aspettano. Ma nell’attesa hanno trovato nelle loro vicine una famiglia di cui si curano e che rispettano.

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