Diritti

La capitana, la disobbedienza civile e l’obbedienza incivile

2 Luglio 2019

L’invocazione dello stupro per la capitana Carola Rackete da parte del canagliume sghignazzante – al cospetto delle telecamere – è quanto di più disgustoso si possa concepire, persino in un paese saturo di maschilismo e altre miserie culturali come l’Italia. Inquadrare la vicenda sotto il profilo analitico è l’ultimo dei nostri problemi. Prima vomitiamo, poi analizziamo.

Una volta svuotato lo stomaco, potremmo anche decidere di parlarne. E parlandone, di getto, con ogni probabilità, ci verrebbe da dire che nel 2019 certi comportamenti riprovevoli non dovrebbero nemmeno varcare la soglia della pensabilità, figuriamoci quella della messa in scena.
Ma se lo dicessimo, sbaglieremmo, perché dimostreremmo di essere complici della diffusa illusione progressista, ossia di quella linea di pensiero che considera la storia come orientata ineluttabilmente verso il meglio, verso il compiersi della giustizia sociale, verso l’inverarsi dei diritti civili su scala planetaria. Un’illusione, appunto. Perché nessuno può garantirci che gli eventi, dopo lunghe giravolte, prenderanno comunque la direzione auspicata. Soprattutto quando chi dovrebbe direzionarli non si dimostra all’altezza degli stessi: la curvatura ottimistica della storia, ricordiamocelo, è una possibilità, non una necessità.

Inutile, quindi, appellarsi, come qualcuno ha azzardato, ai figli della canaglia, intuendoli già redenti nell’approcciarsi alla ripugnante condotta dei padri. Non è affatto scontato che costoro, un giorno, si domanderanno “che padri abbiamo avuto?”. Potrebbero benissimo rivendicare la legittimità del comportamento paterno, così come quello stesso comportamento paterno ha saputo annusare la propria accettabilità nell’offrirsi senza alcun ritegno, nel sapersi, olfattivamente, espressione ufficiosa dello spirito del tempo. Che, in canna, ne siamo assolutamente certi, ha ancora molte altre cartucce da sparare.

Diciamocelo pure, la canaglia, forte di un irresponsabile e duraturo sdoganamento mediatico capace di narrarla come interlocutrice indispensabile con cui sintonizzarsi, pratica di verità non infettate da riflessioni abissali e svolazzi retorici, foriera di “buon senso” stradaiolo, non poteva non scatenare la propria viscosa lingua contro la capitana disobbediente: donna, coraggiosa e ribelle, il peggio che l’omiciattolo canagliesco possa immaginare.

Non poteva non concupire, sbavando alla pavloviana maniera, il tintinnio delle manette, il legalitarismo da gogna, consuetudine apprezzatissima a cadenza costante, prossima a una visione della legalità in rima baciata con l’euforia da esecuzione in piazza, da emorragia pirotecnica.

Oltretutto, a difesa di un decreto legge palesemente ingiusto, per non dire abominevole, che punisce chi soccorre dei disperati in mare che altrimenti rischierebbero la morte e che viola tanto il diritto internazionale quanto la nostra Costituzione, contemplante il diritto d’asilo.

Si, lo sappiamo, la questione migratoria è complessa, eccetera, eccetera. Il manicheismo è infruttuoso, eccetera, eccetera. La sinistra è sempre a caccia dell’icona del momento, eccetera, eccetera. Persino Marx sottolinea come la manodopera di riserva attingibile dall’immigrazione consenta la diminuzione dei salari e dei diritti dei lavoratori nativi, eccetera, eccetera.

Eppure, l’integrazione farraginosa, la redistribuzione iniqua sull’intero territorio europeo di coloro che arrivano, la stessa genesi del fenomeno migratorio nel suo insieme e il dumping salariale con conseguente deriva neoschiavistica, non sono altro che problematiche sociali,
sistemiche, scaturite da scelte politiche scellerate. Non sono frutto del caso.

E a chi conviene non far nulla per risolverle? A Carola Rackete, che rischia la galera per aver salvato delle persone dalla morte in mare sottoponendosi a un processo, oppure a chi campa di propaganda, disertando tutte le sedi in cui si dovrebbero discutere le possibili soluzioni, alimentando sospetti di progettualità politica di stampo illiberale e, dulcis in fundo, manifestando una certa allergia per la magistratura?

Quel che sappiamo è che, a prescindere dalla scontatissima risposta a tale quesito, certe parole, certi toni, sulla lunga, generano performance che possono sfuggire di mano. Gli auguri di stupro, a proprio agio in mezzo a quella stessa folla in delirio che gridava “prima gli italiani”, forse, dovrebbero far riflettere una buona volta chi di dovere.

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