Diritti

Je suis Catherine Deneuve

15 Gennaio 2018

Andare alla fonte, se si vuole conoscere veramente un fatto, è fondamentale.
Così, chi avesse letto il testo integrale apparso su Le Monde dell’appello di Catherine Deneuve e di altre 100 donne provenienti dal mondo della cultura e dello spettacolo sulla necessità di non radicalizzare il messaggio femminista di campagne come #metoo, avrebbe forse capito che l’attrice francese non aveva alcuna intenzione di sminuire il percorso di denuncia delle molestie subite dalle donne di tutto il mondo e neppure di sostenere che “essere molestate è bello”.

Essere molestate non è mai bello, a prescindere dalla “gravità” dell’atto e dal fatto che si tratti di una molestia verbale o fisica.

La Deneuve però sosteneva una cosa diversa: lasciamo decidere alle donne che cosa sia o meno molestia. Il che, come spesso accade, può essere molto relativo.
Aggiungo: diamo alle donne gli strumenti per decidere liberamente cosa vogliano considerare o meno molestia, diamo loro la possibilità di difendersi. La difesa in alcuni casi non può che passare attraverso un intervento esterno: stalking, mobbing, violenze domestiche, pressioni psicologiche devono essere denunciate e la denuncia deve avere un seguito. Le donne non devono essere lasciate sole. Quando però si parla di eventi percepiti come violenza – da alcune, non da tutte le donne – la questione cambia.

Dobbiamo infatti tentare di educare le persone al rispetto e all’uguaglianza, ma – sapendo che si tratta di un percorso lungo e dall’esito incerto – dobbiamo per prima cosa dare alle donne gli strumenti culturali per difendersi. Dobbiamo rendere innocui questi fatti, disinnescarli.

Il fischio per strada, il commento da bar, possono essere variamente percepiti dalle donne. C’è chi si arrabbia, chi sorride, chi addirittura si sente lusingata. Nessuna di queste reazioni è scorretta. Diversa è la percezione di una minaccia. Ma se le donne vittime di violenza spesso non hanno tutti gli strumenti per difendersi – ricordiamo che il primo, la denuncia, non viene da molte utilizzato per motivi socio-culturali ancor prima che per oggettive ragioni pratiche – le  donne che si sentono minacciate dovrebbero essere messe nelle condizioni di sentirsi libere di reagire. Nel nostro paese una serie di fattori – il permanere di una disparità salariale e di trattamento professionale, le discriminazioni in ambito di tutela della salute procreativa, percorsi culturali che, ancora oggi, prevedono stereotipi di genere trasmessi fin dai primissimi anni di scuola – impediscono, di fatto, una reale e completa emancipazione femminile.
Gran parte della battaglia per i diritti delle donne deve quindi passare per un profondo cambiamento della struttura sociale nella quale siamo quotidianamente immersi, ma sempre nel rispetto delle sensibilità e del diritto di autodeterminazione di chi, di questi diritti, dovrebbe essere beneficiario.
La levata di scudi di una parte del movimento femminista contro le parole della Deneuve mette – in parte – il dito nella piaga al movimento stesso, che negli ultimi decenni si è interrogato in maniera sempre più urgente sui percorsi più adatti ad una reale diffusione dei diritti legati alla parità. Un esempio fra tutti è quello legato al femminismo post coloniale.

Il movimento femminista stesso infatti, pur animato da ottime intenzioni, ha spesso provato ad imporre una visione unitaria del ruolo femminile che, in sintesi, è rappresentato dalla donna bianca occidentale, dimenticando che, in un contesto di libera scelta (e questa deve sempre e in ogni caso essere la premessa di ogni spinta democratica, femminista o meno), esistono tradizioni culturali, sociali ed etiche differenti dalle “nostre”.

In diverse occasioni donne musulmane femministe hanno rivendicato il diritto alla libera scelta del velo, ad esempio, identificato invece da un certo femminismo radicale come simbolo univoco di oppressione del patriarcato. Allo stesso modo, per quanto possa non piacere ad alcune di noi, le donne hanno il diritto di apprezzare e ritenere sinonimo di corteggiamento, un commento diretto, un fischio per strada, fino ad arrivare alla battuta a sfondo sessuale. Anche il diritto di accettare – a loro rischio e carico – le avances di un superiore. Attenzione non di doverle accettare (in quel caso tutte devono avere il diritto di denunciare pressioni indebite e di veder tutelati i propri diritti), ma di poterle accettare.

Se proprio una battaglia dev’essere fatta in questo senso dev’essere una battaglia culturale e non di genere.

Una battaglia sulla trasparenza dei rapporti professionali e delle “regole d’ingaggio”, una battaglia contro raccomandazioni e scorciatoie, una battaglia di legalità insomma. La stessa che può essere condotta da donne che non vogliono dover accettare un invito troppo personale da parte di un superiore o che pensano di non dover avere, come mansione, la consegna del caffè alla scrivania la mattina e da uomini che non vorrebbero dover ritirare l’auto del capo dal meccanico o cercare il regalo per sua moglie. Questa battaglia però implica che si debba garantire comunque la libertà di scelta.
Il monito delle cento donne capitanate dalla Deneuve è in realtà contro il pensiero unico, che rischia, anche per le migliori cause, di trasformare un’ideologia in un’altra, in questo caso il patriarcato in matriarcato. E questo la causa femminista non se lo può permettere, perché il pensiero femminile non deve sostituire quello maschile (se così vogliamo leggerla), ma generare una nuova prospettiva: libera, laica, plurale. Non contro, ma altro. Possibilmente insieme agli uomini e a chi, lecitamente, la può pensare diversamente da noi.

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