Diritti
Ismayilova: “Non dovremmo permettere ai politici di attaccare i giornalisti”
Lo scorso 3 maggio, in occasione della giornata internazionale per la libertà di stampa, l’UNESCO ha deciso di riconoscere la battaglia per la libertà di informazione che l’Associazione Bielorussa dei Giornalisti (BAJ) sta portando avanti in un regime che ha esplicitamente dichiarato i giornalisti “un cancro da estirpare”. Il giornalista e poeta Andrei Bastunets, presidente di BAJ è dunque stato insignito del premio Guillermo Cano 2022. Nell’intervista rilasciata per l’occasione egli ha voluto ricordare come nel suo paese la libertà di stampa così come una qualche minima parvenza di sicurezza professionale “semplicemente non esistano”. Molti suoi colleghi oggi operano in clandestinità e il livello di stress a cui sono sottoposti è pagato a caro prezzo in termini di salute fisica e mentale.
Nella stessa occasione, abbiamo avuto modo di intervistare un altro premio Guillermo Cano.
Khadija Ismayilova è una giornalista investigativa azera che nel 2016 è stata insignita del prestigioso riconoscimento per le sue indagini volte a svelare la corruzione nel suo paese. A causa delle sue critiche al regime di Ilham Aliyev, è stata dapprima imprigionata e poi costretta a non poter uscire i confini nazionali. Oggi fa parte del consorzio investigativo Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP) con il quale ha indagato sulla corruzione in Azerbaijan tra cui gli affari del presidente azero, gli interessi nascosti dei fratelli del presidente nei contratti nazionali e la cattiva gestione nel settore del finanziamento statale.
Come ti senti ad essere qui ora?
Quando nel 2016 fui insignita del premio Guillermo Cano ero in prigione. Mia madre ritirò il premio al posto mio. Oggi, dopo sette anni di libertà vigilata e divieto di spostamento sono qui. Essere circondata da giornalisti e attivisti di tutto il mondo mi aiuta perché ho potuto toccare con mano la solidarietà e il sostegno fino ad ora dimostratemi. Ovviamente gli eroi di quest’anno sono i giornalisti bielorussi ed ucraini che si battono tutti i giorni contro la guerra, per cui sento più attenzioni di quante dovrei avere.
In effetti sei stata invitata a partecipare alla conferenza in qualità di una delle vittime del progetto Pegasus, un software utilizzato da diversi governi per spiare illegalmente i giornalisti e i loro contatti.
Sono venuta qui per confrontarmi con altri miei colleghi vittime del malware Pegasus. È devastante vedere come la nostra battaglia contro quanti abbiano utilizzato questo strumento di sorveglianza nei confronti miei e di novanta dei miei contatti più stretti, sia assolutamente impari. Queste persone sono sostenute dal governo. Ciò di cui abbiamo bisogno è maggiore solidarietà internazionale per poter porre fine alle molestie subite fino ad ora.
A tuo avviso la posizione adottata dalle Nazioni Unite offre qualche speranza in questa battaglia per la liberà d’informazione e della privacy?
Ho pochissime speranze sull’esito concreto di queste dimostrazioni di solidarietà. Ovviamente queste azioni aiutano ma ciò di cui c’è davvero bisogno sono maggiori azioni legali e sanzioni internazionali per forzare un cambiamento a livello nazionale. Dobbiamo mostrare i denti se vogliamo che il cambiamento avvenga e questo ancora non lo vedo.
In questi giorni diversi politici hanno parlato dell’importanza dell’etica professionale tra i giornalisti. Nessuno è in disaccordo con ciò ma, per favore, iniziate da voi stessi mostrandoci come si dovrebbe essere più diligenti nel proprio lavoro. Questa tendenza universale a mettere pubblicamente in discussione la professionalità dei giornalisti è una libertà che i politici oggigiorno si prendono troppo spesso.
Questi richiami alla responsabilità e alla trasparenza della politica sembrano oggi essere parzialmente risolti dall’accesso libero ai dati, che tanto hanno contribuito alle più recenti investigazioni giornalistiche sul potere.
Il problema legato alla reperibilità dei dati che usiamo nelle nostre ricerche è che troppo spesso il loro accesso è privilegio di pochi. Queste informazioni dovrebbero essere sempre più raggiungibili e non occultate da governi corrotti. Il nostro lavoro non dovrebbe essere così difficile: i dati dovrebbero essere inviati alla stampa e non oggetto di una fuga di notizie di cui poi i politici si lamentano.
Esiste la speranza che questo metodo renda effettivamente i nostri governi più trasparenti?
La speranza c’è. La domanda di accesso a dati aperti e trasparenti cresce tra la gente ma il processo per ottenerli è troppo lento rispetto alla corruzione. Prendi le cripto monete per esempio: la tecnologia ci permette di produrre e distribuire sempre più denaro e non c’è alcun processo per garantirne la trasparenza. I politici corrotti sono più veloci di noi. Loro hanno più risorse di noi per mettere a tacere i giornalisti, per riciclare denaro sporco, per investire in nuove tecnologie e per punire coloro che li espongono pubblicamente. Noi proviamo a stargli dietro ma siamo troppo lenti.
Eppure, le inchieste collaborative hanno dimostrato di essere efficaci nello svelare alcuni di questi traffici internazionali…
… ci sono progetti collaborativi che hanno avuto successo dal momento che mettere a tacere un solo giornalista è assai più difficile che silenziare un intero consorzio, come nel caso dell’OCCRP il gruppo di cui faccio orgogliosamente parte e di cui vedo l’efficacia. Ma anche i cattivi si aiutano a vicenda. Ci sono molti casi di giornalisti uccisi irrisolti, come quello di Daphne Caruana Galizia. I suoi tormentatori sono ancora liberi.
Da questo terribile assassinio è nata una coalizione internazionale per difendere i giornalisti vittime di cause giudiziarie volte a censurarli. Anche grazie al loro lavoro, lo scorso 28 aprile la Commissione Europea ha finalmente emanato una serie di raccomandazioni volte a riformare i sistemi giuridici dei singoli Stati Membri. Pensi che questo sia abbastanza?
Non si tratta solo di emanare raccomandazioni ma di fare nomi e cognomi dei cattivi. Ci sono studi legali a Londra che sono diventati ricchissimi a furia di proteggere gli oligarchi russi e azeri. Com’è possibile che queste persone possano intentare cause economicamente dissanguanti per le redazioni, solo perché hanno una proprietà immobiliare a Londra? Se è fortunato un giornalista può fare affidamento su di un’organizzazione che pro bono lo rappresenti, com’è successo a me, ma nella maggior parte dei casi queste risorse non esistono. Moltissimi colleghi non hanno accesso a nessun meccanismo di difesa e sono costretti ad abbandonare una causa altrimenti infinita. Il Regno Unito non dovrebbe essere più disposto ad accettare queste procedure che si fanno scudo di una durissima legislazione contro i giornalisti.
Ovviamente esistono anche altre forme di censura. Guarda all’Azerbaijan. Di recente il governo ha introdotto una legge che obbliga tutti i giornalisti a registrarsi presso un’agenzia governativa. Il nostro governo ha detto che questa pratica esiste anche in Italia, al che sono andata a vedere e ho scoperto che fu Mussolini ad introdurla. Sicuramente oggi l’albo dei giornalisti è stato riformato ma in Azerbaijan questo strumento può essere utilizzato come meccanismo per limitare l’accesso alla professione.
Capisco cosa tu intenda ma allo stesso tempo ci sono diversi propagandisti e finti giornalisti che pretendono di agire senza seguire nessun codice etico professionale.
Stabilire chi sia giornalista o meno non è il tuo mestiere. Deve essere il pubblico a decidere chi è o meno un professionista. Sono totalmente contraria a ogni meccanismo di regolamentazione della professione, sia politico che autoregolativo: hai bisogno di una regolamentazione per qualcosa che non ti appartiene e fino a prova contraria la libertà d’espressione è un diritto fondamentale con cui nasci.
Gli albi dovrebbero essere utilizzati solo per regolamentare chi usa strumenti di comunicazione di proprietà nazionale, ad esempio le frequenze radio. In questo caso un meccanismo di autoregolazione serve per consentire e gestire l’utilizzo che ne fai.
Come giustifichi dunque la scelta del Consiglio europeo di proibire a Russia Today e Sputnik di operare in Europa? Seppur infatti promotori di una politica di disinformazione, diversi osservatori, come la Federazione Europea dei Giornalisti, hanno riscontrato in questo atteggiamento una forma di censura che potrebbe costituire un grave precedente alla violazione della libertà di espressione.
Il Consiglio europeo ha semplicemente applicato uno dei suoi principi fondamentali: ogni media finanziato con fondi pubblici non va utilizzato a fini propagandistici. Russia Today promuoveva una chiara agenda politica il che è di per sé sbagliato e l’Europa ha regolamentato l’attività dei media stranieri sul suo territorio conformemente alla sua legislazione interna. Quando i media russi sono divenuti strumento di guerra nelle mani del Cremlino l’UE ha avuto pieno diritto nel bloccare le sue trasmissioni su tutte le piattaforme.
Questo è il nostro argomento come democrazie liberali, eppure, sebbene questi canali diffondessero disinformazione, tale ragionamento è lo stesso che permette alla Russia di bloccare piattaforme come BBC e Deutsche Welle.
Non si tratta dello stesso ragionamento. Noi stiamo parlando di canali che usano fondi pubblici per minare la nostra società civile. Se si trattasse di giornalisti indipendenti sarebbe diverso giacché sarebbe nell’esercizio della loro libertà d’espressione. Quando fui diffamata sulla televisione azera portai il caso in tribunale perché avevo prove sufficienti per dimostrare che tale diffamazione era frutto di una precisa agenda politica: delle persone erano state reclutate dal mio governo per attaccarmi in virtù delle mie inchieste sulla corruzione del presidente. Le tue esortazioni ad avere un approccio equilibrato sono corrette ma non in questo caso. Non è possibile fare appello a dei meccanismi autoregolatori perché Russia Today e Sputnik non rappresentano un giornalismo indipendente.
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