Diritti
Iran, 1394
In Iran le donne non vanno in bicicletta, l’aria è spesso irrespirabile e in radio passano soltanto le inascoltabili litanie dei muezzin.
In Iran le montagne risplendono di sette o otto colori, gli uomini cantano in gruppo all’aria aperta e nei caffè ragazze velate leggono il futuro su libri magici.
Mi trovo in Iran, sono i giorni che precedono il Capodanno del 1394. Nel calendario gregoriano, siamo ai primi mesi del 2015.
Arrivo all’aeroporto “Imam Khomeini” alle quattro del mattino, proveniente da Vienna. Nella città austriaca ho ingannato le sei ore d’attesa prendendo l’espresso per il centro. Nel mio vagone ero in compagnia di una scolaresca di italiani; professori e studenti si parlavano con modi gentili. Ho trovato la città fredda e vuota. Sono passato di fronte ad un negozio di tappeti nella zona della cattedrale che dimostrava tutti i segni della chiusura domenicale. In vetrina campeggiava un pezzo enorme e coloratissimo, da oltre ventimila euro. Un segno: era persiano.
Il mio aereo perde quota tra le montagne a nord di Teheran, ed io sento un peso addosso. Il peso di una storia millenaria, di una rivoluzione islamica atroce, di una zona di mondo che come poche altre – la Corea del Nord, il Bhutan, la Birmania – mantiene intatto il suo alone di mistero. Scendo dall’aereo e mi dirigo verso il passport control. Un ufficiale in divisa assonnato passa in rassegna i miei documenti e mi fa segno di proseguire. Nessuna domanda, nessun accertamento. Il mio timore reverenziale viene meno. Faccio girare il tornello ed eccomi arrivato: sono in Iran.
Ad aspettarmi c’è Ali con la famiglia al completo. Siedo in macchina con lui, suo padre, sua madre ed il fratello. La vettura di fronte è stipata di zii e zie. In quella dietro, i cugini. Partiamo con destinazione la città di Nur, sul Mar Caspio.
Il paesaggio è brullo, spettrale. Effettuiamo la prima sosta a bordo strada, saremo all’incirca a tremila metri d’altitudine. Le zie dispongono dei tappeti per terra, la mamma mette un po’ di tè sul fuoco. Vicino a noi un’altra famiglia è impegnata nello stesso rituale. Mentre consumiamo la nostra colazione, un uomo esce da un’abitazione a poca distanza e prende a gridare all’indirizzo del tappeto accanto. I vacanzieri sono colpevoli di essersi piazzati troppo vicino alla sua proprietà. L’uomo si avvicina e grida sempre più forte. Il capofamiglia sembra disinteressato. Guarda in un’altra direzione, facendo cenno di no con la testa. L’uomo rientra in case e questa volta ne esce brandendo un machete. La scena si ripete, uguale a prima. Il capofamiglia sorseggia e fa finta di niente. Non so come comportarmi, sono certo di essere in procinto di assistere ad un omicidio. Rivolgo ad Ali uno sguardo incredulo, lui mi risponde in maniera laconica: “non preoccuparti, tutto teatro.”
Prendiamo possesso di una “Villa” – come la chiamano i locali – vicino a Nur. Dalle abitazioni circostanti emerge un numero sempre più alto di zie e cugini di tutte le età. È subito l’ora del bagno. Il Mar Caspio è inservibile, possiamo però usufruire della piscina che fa parte del complesso. Prima è il turno degli uomini. Giovani e meno giovani con costumi colorati si buttano in acqua e si gioca a farsi gli spruzzi fino al tramonto. Quando arriva il turno delle donne ci allontaniamo. Degli addetti issano tutto attorno alla piscina delle incerte strutture a forma di vela, per prevenire sguardi indiscreti. Con i ragazzi beviamo un caffè e commentiamo gli schiamazzi prodotti tra le stoffe svolazzanti.
In giorno seguente andiamo a trovare un parente di Ali che vive a pochi chilometri di distanza. Durante la settimana ha un impiego ordinario mentre nel fine settimana si dedica alla costruzione di santour, una specie di arpa iraniana suonata percuotendo le corde con un paio di bacchette ricurve. Lo scantinato ospita una trentina di esemplari. Dice che prima di vendere un santour questo deve essere suonato ogni giorno per almeno un mese. Ci intrattiene con un concerto lunghissimo e ritmato.
Con tutta la famiglia prendiamo casa vicino al costruttore. A sera portiamo un tappeto in spiaggia e uno per volta iniziamo a cantare. Ali, suo padre ed il fratello offrono al Mar Caspio melodie struggenti con voci malinconiche. Preso alla sprovvista, a me non viene in mente niente di meglio che intonare una versione raffazzonata de “La gatta” di Gino Paoli. Per fortuna è gente magnanima. Sembrano soddisfatti.
Trascorsa qualche ora a poca distanza attracca la barca a remi di un pescatore. Andiamo a vedere cosa ha preso. Ci mostra due pesci moribondi e ci spiega che la pesca illegale e l’inquinamento hanno distrutto il Mar Caspio. Gli chiediamo se lui ha la licenza per pescare. Scuote la testa.
Torniamo al tappeto, il padre di Ali assume una vena familiare-esistenzialista e mi chiede di lasciarlo solo con il figlio per parlare sulle sponde del mare. Io mi allontano con Amin, il fratello, e ci mettiamo a letto. Dormiamo tutti insieme in una grande stanza, ci sono dei materassini per terra, è comodo.
Qualche giorno più tardi ripartiamo per il sud. Finora non ci avevo fatto caso, ma in strada le automobili mi sembrano tutte identiche. Mi spiegano che la “Samand LX” è stata sviluppata grazie ad una collaborazione con la Corea del Sud. Un esemplare costa 200 milioni di rial, o 5000 euro, una cifra più che abbordabile per il ceto medio. A bordo della nostra trabant bianca iraniana, in mezzo ad una moltitudine di trabant bianche iraniane, ci arrampichiamo per le montagne. Verso mezzogiorno il padre di Ali mi chiede: “Do you want a party?” Io sono confuso, rispondo di sì. Le tre auto della carovana si fermano presso un’area verde, il padre alza il volume al massimo, apre i finestrini e tutti quanti sul prato iniziamo a ballare. È un rave consumato in famiglia, solo che tutti sono perfettamente sobri e muovono le braccia in modo ritmato. Il padre di Ali quando sorride fa schiudere le porte del cielo. Secondo Ali, qualche anno prima ha visto più di un amico divelto dalle bombe irachene sul confine. Quasi tutte le auto di passaggio suonano il clacson al nostro indirizzo. Qualcuno si sporge e grida: “Nowruz mobarak!”. Ah già, è quasi il nowruz, il capodanno iraniano. Me n’ero quasi dimenticato.
Alla ripresa del viaggio, la formazione è cambiata. Io, Ali ed Amin prendiamo per Teheran, il resto della famiglia propende per far ritorno direttamente a casa, ad Isfahan.
Teheran appare da subito come una grande autostrada. In mezzo alle altre vetture, mi sento come un globulo bianco dentro ad un apparato cardiovascolare impazzito. I clacson dettano un ritmo incalzante, le gigantografie dei politici colorano la strada. L’aria è praticamente irrespirabile.
Pare non ci sia modo di fermarsi. Per un paio d’ore giriamo tra rettilinei, tunnel, sopraelevante. Se ce ne fosse il bisogno, arrivo alla conclusione che cemento è un materiale orrendo. Raggiungiamo finalmente il palazzo dello Shah, il re di tutta la Persia spodestato rivoluzione islamica del 1979. Gli edifici sono stupendi, gli arazzi insuperabili e molto curiosa è l’esposizione dei doni di dignitari stranieri. Trovo il posto comunque poco interessante e chiedo ad Ali di andarcene. C’è un altro monumento che cattura molto di più la mia attenzione.
Il mausoleo dell’Ayatollah Khomeini è sia una tomba che una moschea che uno degli edifici più rappresentativi dell’Iran degli ultimi vent’anni. Arriviamo seguendo le indicazioni e parcheggiamo senza patemi. L’ingresso è affollato di fedeli che formano una fila timorata e silenziosa. Io mi sento un intruso, immagino che la guardia mi chiederà due cose in parsi, io lo fisserò stupito e lui mi rimanderà indietro. In realtà tutto è molto più semplice. Io ed Ali lasciamo le scarpe in uno spogliatoio, ci laviamo i piedi negli appositi lavabi e siamo dentro.
Un corridoio angusto, poco illuminato e ricoperto di moquette ci porta ad un’ampia sala che un gran numero di famiglie usa come fosse un giardinetto pubblico: c’è chi mangia, chi dorme, chi prega, chi mette su un po’ di tè. Tutto a pochi metri dalle spoglie del grande Ayatollah. Ali mi spiega che i pellegrini da tutto l’Iran hanno diritto a recarsi al mausoleo e trascorrere la notte al suo interno. Alcuni si fermano anche due o tre giorni. È sera, propongo subito di buttarci qualche ora sulla moquette soffice all’ombra della tomba dell’Imam. Lui storce la bocca. Molti giovani iraniani non hanno in grande stima la rivoluzione islamica, mi sento in colpa. Porgo le mie scuse ed usciamo di fretta.
Siamo ai principi della primavera, la notte scende in fretta. Tra noi ed Isfahan ci sono sei ore di viaggio. Ci spostiamo a velocità costante e teniamo i finestrini aperti. Chiedo ad Ali se possiamo sentire un po’ di radio. Ride. Le radio sono sotto il controllo dei guardiani, non passano altro che preghiere e Corano. Amin mette su un CD pirata. Sono i Metallica. Ascoltiamo in silenzio le note di “Master of Puppets” nella notte lasciandoci il deserto alle nostre spalle.
I genitori di Ali abitano in periferia. La casa in un primo momento sembra fatta d’argilla, ma poi si rivela moderna, solida e fresca. Il primo giorno utile ci rechiamo a Naqsh-e Jahan, la piazza principale, o anche: “lo specchio del mondo”. La piazza e lo spazio al suo interno creano un’atmosfera indescrivibile. I giardini sono abbelliti da centinaia di famiglie festanti accorse dai paesi limitrofi per il Nowruz. Isfahan è una città di architetture azzurre e giardini paradisiaci. Chi mi guida in questo viaggio è nato qui, ogni angolo trasuda di storie personali e della nazione. Visitiamo la moschea dello sceicco Loftollah, o “la moschea delle donne”, un gioiello. La cupola è ricoperta da mosaici inverosimili. Ali mi fa notare come al suo centro vi sia la piccolissima immagine di un pavone. Tutto il resto è la sua coda. Dopo esserci lavati al solito i piedi, entriamo nella moschea dello Shah. Nel cortile, una serie di cartelloni offre facce sorridenti di donne in hijab e riporta in varie lingue storie di conversione a lieto fine, tipo: “Tina faceva la consulente immobiliare a Francoforte. Tina era insoddisfatta della sua via. Poi si è convertita all’Islam. Ora è felice.” In una casetta in disparte siede un uomo specializzato a rispondere a domande sulla vita e sull’Islam. Che tu sia europeo, iraniano, cristiano o musulmano puoi andare da lui e chiedere qualsiasi chiarimento. Nel pomeriggio facciamo in giro per il bazar che circonda la piazza. I negozi sono ben curati, le volte stupende e perforate. La luce si intrufola creando evocativi disegni nell’oscurità. Parlo con un venditore di tovaglie stampate a mano. Dice che il prezzo quest’anno è maggiorato. Le tovaglie una volta terminate vanno lavate nelle acque dei fiume Zāyanderūd, che ora è in secca. Deve guidare più di due ore per raggiungere la riserva più vicina e la benzina costa. Un venditore di vasellame mi racconta di essere stato a Venezia, negli anni ‘80. In due settimane, sarà l’unica persona che incontrerò ad essere mai stata all’estero, “a parte La Mecca”. In serata ci raggiungono gli amici di Ali. Arash, Siamak, Soroush Mohsen, Sasan. Sono tutti colti e simpaticissimi, fanno a gara a farmi divertire. Andiamo a fumare un po’ di narghilè. Tiriamo avanti fino a tardi tra piacevoli chiacchierate.
Il giorno successivo riceviamo un invito degli amici di Ali per una partitella a calcio. Constato con piacere che conoscono tutto sul campionato italiano, soprattutto intorno agli anni duemila. Mi chiamano “Baggio”, tutti mi vogliono in squadra. Io faccio melina, dico di essere forte a basket, nessuno mi crede. Al primo cross fuori misura scoppiano in una fragorosa risata.
Dopo la partita andiamo a casa di un tizio che dice di essere un pittore. L’appartamento è in un seminterrato e possiede tutti i crismi del covo bohémien. Ci sono tinozze di colore abbandonate negli angoli; al centro, un grande tavolo in legno grezzo ricoperto da cianfrusaglie; tele poco rassicuranti sul futuro dell’umanità occupano le pareti. I ragazzi iniziano a giocare a FIFA, mi chiedono se voglio un drink. È la prima volta da quando sono arrivato che sento parlare di alcol. Chiedo cosa offre la casa. In giro non si trova nient’altro che un distillato di prugne dal nome molto evocativo, “arak saghi”, ovvero, “sudore di cane”. Dicono che è un po’ forte. Mi chiedono se lo voglio liscio o con succo di arancia. Faccio lo spavaldo, lo prendo liscio.
Sono le nove, è ora di uscire. Le opzioni sono due: accendere un fuoco in campagna o andare al biliardo. Mi chiedono opinioni sul dafarsi. Io adoro i retaggi zoroastriani, il fuoco sacro, ma una sala da biliardo iraniana non me la voglio proprio perdere. Mentre siamo in auto ci fermiamo ai semafori e tiriamo giù i finestrini. I ragazzi scherzano con i passeggeri delle vetture accanto, si scambiano i numeri di telefono. Dicono che i semafori sono i posti migliori dove rimorchiare le ragazze.
Passano i giorni, finalmente mi libero dalla morsa di Ali e dei suoi parenti. Vado da solo alla piazza specchio del mondo e mi siedo su una panchina. Tre ragazzi con le buste della spesa invocano il mio aiuto per una foro e mi invitano a pranzo da loro. Declino. Un signore sulla sessantina con un rosario musulmano in mano si siede al mio fianco e mi spiega in qualche modo di essere un professore di arabo in una scuola di provincia. Mi chiede se voglio un gelato. Accetto. Io ed il professore ci addentriamo nel bazar. Il gelato è introvabile. Vaghiamo facendoci spazio tra la folla finché non lo troviamo. Ordina una coppetta, paga e me la mette in mano. Gli chiedo se non ne voglia una anche lui. Risponde di no e se ne va.
Sono stanco della calca della piazza, decido di andare a fare una passeggiata lungo al fiume. Il venditore di tovaglie aveva ragione, nello Zāyanderūd non c’è più un filo d’acqua. Sono in procinto di attraversare il ponte Sio-o-se Pol, o “dei 33 archi”, quando qualcuno mi ferma. Mi chiede se parlo inglese. Si chiama Afsaneh, ha sui 25 anni e insegna lingue straniere in un istituto privato. È contenta di vedere uno straniero in giro per Isfahan e mi invita ad unirmi a lei ed ai suoi amici. Questa volta accetto. Dopo meno di dieci minuti da quando ci siamo conosciuti sul ponte sono in auto con Afsaneh, suo cugino, la moglie del cugino ed un’amica. Tiro fuori la mia moleskine vergognosa e scrivo i nomi di tutti e quattro seguendo la disposizione dei sedili. Non so dove mi stanno portando. Sono tutti estremamente cordiali. Saliamo su per la montagna ed arriviamo ad un Luna Park con vista sulla città. Come adolescenti in erba ci facciamo sballottare dalla nave dei pirati, spariamo ai palloncini, rotoliamo dentro a cappelli messicani girevoli. Tra una bevanda gassata e l’altra raccontiamo di noi e delle nostre vite.
Mi chiedono se ho voglia di rimanere con loro per cena. Mi sono trovato bene, perché no. Entriamo in una versione rimaneggiata di Pizza Hut. Io penso che sono stati tutti molto generosi con me, mi offro di pagare. Non riesco, pensano a tutto loro. Sul tardi Ali mi chiama, vuole sapere dove sono finito. Gli racconto la storia del Luna Park e della professoressa di inglese. Non dimostra il benché minimo stupore. Viene a prendermi in centro e andiamo a casa di parenti. Sono le tre di notte. La nonna ha oltre novant’anni ed è più vispa che mai. Sfogliamo album fotografici e mangiamo dolcini. È la notte del Nowruz. Buon 1394 a tutti.
I giorni che seguono sono freddi, tira vento forte. Non si direbbe, ma Isfahan è una città di 1.7 milioni di abitanti che sorge ad un’altitudine di 1700 metri. Una specie di Quito incastonata tra i monti dello Zagros. Nelle ore del tramonto puoi guardare in qualsiasi direzione e scorgerai vette che risplendono di un colore rosa brillante.
Un mattino Afsaneh mi manda un messaggio. Vuole che la raggiunga per pranzo. Quando arrivo la trovo sorridente in compagnia di un’amica. Mi portano a fare pranzo in un ristorante nascosto tra i vicoli del bazar. Sediamo su una struttura in bambù rialzata a base rettangolare, come se ne vedono a centinaia lungo la strada per il nord. Nel locale tutto è ben curato, i dettagli risaltano in modo sgargiante. Il risultato è di rara bellezza, sembra il set di un film di Wes Anderson in salsa mediorientale. Ci spostiamo altrove per il caffè. Quando siamo in procinto di attraversare una strada, Afsaneh e Mi’na mi prendono a turno per mano. Dapprima mi sento in imbarazzo, poi mi ci abituo. La trovo una cosa del tutto normale. Arriviamo in un locale nella zona dell’università. L’atmosfera è quella di un minuscolo caffè degli artisti parigino, il menu è un richiamo da un mondo lontano: smoothie, pan au chocolat, frappuccino. Mi’na si allontana e torna con un libro, un tomo di migliaia di pagine con gli angoli consumati. È il “Divan” del poeta e mistico medievale Hāfez. Mi chiedono di aprirlo in un punto a caso. Lo faccio. Mi’na prende a leggere in parsi. Afsaneh traduce in inglese. Il mio futuro non sembra tanto male. Ci sottoponiamo al rito divinatorio a turno, continuando a sorseggiare il nostro frappuccino.
La tappa successiva è il quartiere armeno. Per raggiungerlo attraversiamo il ponte Khaju, uno dei più famosi di tutto il paese. La parte centrale è all’aperto, quelle laterali al coperto. L’acustica è impareggiabile. Mi invitano a sussurrare i miei segreti ad una qualsiasi delle arcate e mi dimostrano che dal lato opposto si sente tutto perfettamente. Sul lato meridionale del fiume ci imbattiamo in gruppi di uomini che cantano insieme all’aperto.
Finora l’Iran mi era sembrato un paese ben più liberale ed aperto di quanto me l’ero immaginato. Devo ricredermi. All’ingresso del quartiere Armeno due anziane signore con lunghi chador neri e lo sguardo incupito dalla preghiera ci fermano. Prendono ad inveire all’indirizzo delle due amiche, ree di aver messo in mostra qualche centimetro in più di capelli. Ci scusiamo lungamente e ci lasciano andare. Mi piegano che il cartellino verde al petto identifica le guardie morali della rivoluzione. Ho una morsa allo stomaco. Mi sembra il momento propizio per discutere del diritto delle donne nello stato islamico. Mi spiegano che non possono andare in bicicletta e sono tenute ad indossare l’hijab nei luoghi pubblici. Per il resto non è così male. Dicono che con l’elezione di Rouhani ci sono grandi cambiamenti all’orizzonte. Tra al massimo un paio d’anni l’hijab non sarà più obbligatorio. A me sembra una speranza un po’ ingenua ma non ne so abbastanza, chiudo lì la questione.
Nel quartiere armeno assistiamo a scene in costume di vita quotidiana dai secoli passati. Alcuni sacerdoti zoroastriani leggono poesie attorno al fuoco. Sulla via del ritorno siamo di nuovo nei pressi del ponte Khaju. Questa volta decidiamo di attraversare il letto del fiume a piedi; tanto è in secca. Fa già scuro. Prendiamo a camminare nel ben mezzo del corso d’acqua prosciugato fino al ponte successivo. Afsaneh mi tiene per mano. Dice che se le guardie ci vedessero, ci potrebbero anche arrestare.
È il mio ultimo giorno ad Isfahan. Do il mio commiato alle ragazze e raggiungo Ali in un hotel del centro. Beviamo qualcosa e siamo in macchina. Ad aspettarci ci sono Mohsen e sua moglie. Mohsen lavora per una multinazionale, scrive articoli per i giornali e dà l’impressione di un’intelligenza sopraffina. La moglie intellettualmente è altrettanto preparata ed è di una bellezza disarmante. Hanno tutti e due meno di trent’anni. Parliamo. Verso le due di notte mi chiedono se voglio qualcosa da mangiare. Rispondo di no. “Meno male”, dicono, era un tarof. Poi scoppiano a ridere. Per l’ennesima volta osservo tutti stupito. Mi mettono al corrente della situazione. Un tarof è un atto di pura cortesia. Significa offrire qualcosa al momento sbagliato, sicché chi riceve l’offerta vorrà certamente rifiutare. Mi crolla il mondo addosso. Ripenso alle decine di occasioni in cui la madre del mio ospite mi ha offerto un tè alle cinque del mattino, una torta alle tre di pomeriggio, un pesce alla piastra alle due di notte. Ed io ho sempre risposto di sì. Rimprovero Ali. Prima del prossimo viaggio, dico, dovrà fornirmi una più solida base teorica.
È l’alba dell’ultimo giorno della mia permanenza in Iran. Con il mio amico usciamo sul presto, sulle strade non c’è nessuno. Salgo su un autobus a cinque stelle con sedili in pelle reclinabili ed aria condizionata. In serata ho il volo da Teheran. Saluto Ali, ci rivedremo non prima di qualche mese.
Sto attraversando di nuovo il deserto, questa volta di giorno. Le montagne sono incantevoli, risplendono ognuna di sette o otto colori. Prendo in considerazione di fermarmi un paio d’ore a Qom, la città santa. Pochi minuti prima della fermata passiamo di fianco ad un autocarro in fiamme. Nella nuvola di fumo tutto si fa nero. Lo prendo come un cattivo presagio, cambio idea. Meglio rimanere a bordo fino al capolinea.
Sono in aeroporto, ho di fronte a me parecchie ore di attesa. Sonnecchio su una panchina, cerco di tracciare un bilancio di tutto ciò che mi è capitato nelle ultime due settimane. L’Iran mi sembra un paese molto diviso tra chi si rifugia nei rassicuranti dettami della religione e chi cerca nuove vie. Vicino a me scorgo tre donne con il chador nero, stanno guardando in silenzio una partita di calcio alla televisione. È un’amichevole, Egitto-Arabia Saudita. Ripenso subito ad Afsaneh ed alla sua amica. Mi chiedo cosa stiano facendo. Forse leggono un libro magico. Forse passeggiano sullo specchio del mondo o nel letto di un fiume. Forse si divertono in un Luna Park sulla collina. Una cosa è certa: sicuramente non sono su una bicicletta.
[photo credits: Saleh Dinparvar, Tobi Gaulke and Loizeau]
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