Diritti
Io sono lontano da te quanto il paradiso
Dopo averlo seguito a lungo attraverso i media (a sua insaputa), nel gennaio del 2022 intervistai per la prima volta il prof. Aldo Morrone. L’intervista è facilmente reperibile in rete.
Partimmo come spesso si fa in queste circostanze parlando dei massimi sistemi per poi entrare nel merito di numerose dinamiche che allora interessavano molto l’opinione pubblica. Parlammo di covid (il prof. Morrone è stato durante la pandemia una delle voci più autorevoli e ricercate dalle reti televisive nazionali), parlammo di sanità pubblica e piano piano scivolammo su temi etici di grande importanza. Molte delle nostre riflessioni e dei nostri pensieri rimasero privati e decisi di non proporli nella pubblicazione.
Aldo Morrone è un medico, se volessi utilizzare una locuzione fortemente abusata, dovrei dire che è “un medico di gran fama”.
Classe 1954, è il direttore scientifico dell’Istituto San Gallicano di Roma (IRCCS) un istituto di ricovero e cura a carattere scientifico specializzato nel campo della dermatologia e venerologia.
Infettivologo di fama mondiale, ha messo a disposizione la sua grande esperienza, maturata in ogni angolo del mondo, anche rompendo gli schemi tradizionali dell’assistenza pubblica. E’ un uomo che non attende il malato solo sulla porta del suo studio ma scende in strada e si gioca in prima persona a tutto tondo il suo ruolo di sanitario. La sua storia parte da lontano e ci racconta di un’incessante opera prestata per quasi quarant’anni in aiuto di poveri, migranti, persone in difficoltà. Potrei definirlo un “missionario laico”.
Pochi giorni fa, era il venti di questo mese, Aldo Morrone ha scritto alcuni pensieri derivanti dalla sua esperienza diretta, personale e professionale, tornando da uno dei suoi innumerevoli viaggi della solidarietà fatti in giro per il mondo.
“Faccio queste riflessioni mentre lascio il Kurdistan e l’Iraq…”
Li faccio miei e ve li propongo, accompagnandoli con una considerazione di carattere generale.
Che li condividiate o meno, non dimenticate che si tratta di realtà percepite “sul campo”, non di elucubrazioni teoriche derivanti da un mero esercizio di filosofia. Ciò che Aldo Morrone descrive corrisponde a quanto ogni giorno accade lontano da noi, vicino a noi.
Buona lettura.
“Donna colma di miraggio e di cenere!
Tu sei come un racconto con lunghi capelli,
e lunghe lacrime!
Io sono lontano da te quanto la felicità.
Io sono lontano da te quanto il paradiso.
Ma sono vicino a te quanto
Quelle grandi gocce imprigionate nei tuoi occhi,
e sulla tua guancia polverosa!”
Sherko Bekas (1940-2013)
Il 20 marzo 2003, cominciò l’invasione americana dell’Iraq: “la guerra stupida” l’avrebbe definita Barack Obama. Vent’anni fa Americani e Britannici erano sicuri che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa, anche se gli ispettori dell’ONU non le trovarono mai, perché non esistevano.
Quando gli americani se ne andarono nel 2011, fu un disastro per l’Iraq occupato e un’umiliazione per il cosiddetto “prestigio occidentale”. Si voleva esportare la democrazia, con le armi, e lasciammo un inferno di violenza, di guerra civile, di crescita dell’Isis e di corruzione. Proprio come in Afghanistan nel 2021.
Faccio queste riflessioni mentre lascio il Kurdistan e l’Iraq, con la loro storia millenaria e le troppe crudeli disuguaglianze. Nonostante le ricchezze petrolifere, che costituiscono il 99% delle entrate dall’estero, il 50% degli abitanti iracheni vive ben al di sotto della soglia di povertà e sono oltre 12 milioni gli analfabeti su 40 milioni di abitanti. Il petrolio ha creato un 3% di ricchissimi legati alla politica, il 12% di dipendenti pubblici e il resto lavoratori poveri da 300 dollari al mese.
In questi anni ho incontrato donne, bambini e anziani fuggiti dalle violenze in Iraq, in Siria, in Iran, in Palestina, in Kurdistan. Donne yazide sopravvissute allo stupro di guerra, violentate e usate come schiave sessuali, come ha testimoniato Nadia Murad, premio Nobel per la Pace del 2018, proprio per il coraggio di sopravvivere alla schiavitù e alle violenze sessuali cui l’avevano sottoposta i criminali dell’Isis.
Sono oltre 9 milioni gli iracheni sfollati interni o rifugiati all’estero. La crisi dei rifugiati ha avuto un impatto sia sugli iracheni fuggiti sia sulle comunità che si sono lasciati alle spalle. Ingegneri, artisti, avvocati, medici, insegnanti e altri professionisti sono stati tra i primi a fuggire dalla guerra. Inoltre l’Iraq ospita oltre 300 mila rifugiati e richiedenti asilo, per lo più residenti nella regione del Kurdistan iracheno, con poche prospettive di rimpatrio.
Ho visitato bambini sunniti, sciti, yazidi e cristani, che avevano vissuto l’orrore della violenza. Sono stato alla moschea dell’Imām ʿAlī, nella città santa di Najaf, l’importante centro d’insegnamento teologico e luogo di residenza dell’Ayatollah al-Sistani che è il riferimento degli sciiti duodecimani dal 1992. Per cercare di capire la realtà di questo Paese.
Quanta sofferenza ho sentito in queste antiche terre sumere tra il Tigri e l’Eufrate, tra Babilonia e Bagdad.
I campi rifugiati di Arbat in Kurdistan sono tra i luoghi più dolenti ed emblematici della mappa internazionale dell’umanità sradicata e a rischio di abbandono.
Lasciandoli mi chiedo: che colpe hanno commesso questi bambini, queste donne e anziani che ho incontrato e visitato? Nascere e crescere in un campo rifugiati, un campo di concentramento, senza alberi, senza fiori, senza scuole, senza speranza, ma con reticolati e filo spinato, è o non una perversa ingiusta condanna? Il livello di vita qui è insopportabile, non ci si aspetta più nulla dall’esistenza, solo la possibilità di fuggire prima di morire. E poi morire annegati nel Mediterraneo o sulle rotte dei Balcani, ai confini della speranza, cambia poco!
Faccio fatica ad accettare questa violenza inaudita e feroce, anche se silenziosa e lontana dalle telecamere. Provo un senso di vergogna perché percepisco l’ipocrisia di chi grida ogni giorno il proprio impegno per i diritti umani, finché c’è una telecamera accesa, però senza mai “toccare” con il cuore e le mani l’anima e il corpo dei bambini “dannati” della Terra, rinchiusi nel tempo e nello spazio di un reticolato, frontiera tra il sopravvivere e il morire!
Se gli USA avessero concesso un visto a due bambine: Anna Frank e a sua sorella Margot come chiedeva disperatamente il padre, oggi non avremmo sulla coscienza la morte di altre due vittime innocenti, pronti a celebrarne il ricordo, ma insensibili a prevenirne la morte.
E allora mi chiedo perché l’Europa, gli USA, questi Paesi non concedono mai un visto regolare d’ingresso, a coloro costretti a fuggire dal proprio Paese, ingrassando le organizzazioni criminali che sfruttano la fame di dignità e di futuro di milioni di persone?
Questo mi domandano le piccole e i piccoli di Arbat, ormai prigionieri per sempre in un Paese che non è il loro. Io che vivo il privilegio e la responsabilità di visitare ognuno di loro, sento la sofferenza muta che va oltre l’epidermide, attraversa il cuore e si manifesta nei loro occhi tristi.
Oggi paradossalmente è la giornata mondiale della felicità.
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