Diritti
In difesa del bistrattato «politicamente corretto»
Il caso specifico sembra uno scontro fra contrapposti nazionalismi: Massimo Corsaro, già esponente missino, ora deputato fittiano e autore di molte imbarazzanti uscite (si pensi alla terrificante battuta sulla circoncisione di un deputato ebreo, Emanuele Fiano), dà sprezzantemente dello «zingaro» a Siniša Mihajlović, accusato in passato di amicizia con il criminale di guerra Željko Ražnatović e di sostenere il genocida Ratko Mladić, e recentemente salito agli onori delle cronache per avere dichiarato di non conoscere Anna Frank. I nazionalismi si assomigliano ma, alla lunga, sono destinati a entrare in conflitto.
Corsaro usa dunque una parola, «zingaro» (ma avrebbe potuto essere «napoletano», «ebreo», «muso giallo»), che definisce una specifica cultura di antica tradizione, come insulto a una persona che gli sta antipatica.
Quel che colpisce nella polemica innescata dal deputato è la sua difesa, che è ormai la difesa d’ufficio di tutti quelli come lui da qualche anno a questa parte: «basta con il politically correct». Sembra che chiunque possa dire qualunque cosa mascherandosi dietro a quello che è diventato il canone di gente che un tempo si sarebbe definita semplicemente maleducata e incivile: «non sono razzista/ omofobo/ antisemita/ misogino/ violento (ecc.), sono soltanto politicamente scorretto». Oppure «dico quello che pensa la gente», espressione tipica di chi in realtà non frequenta ambienti normali (vi immaginate Trump in coda da Walmart o alla posta?) e pensa che «la gente» sia un coacervo di cafoni analfabeti. Ci sono anche questi ultimi, naturalmente, ma davvero sono rappresentativi degli italiani e, soprattutto, sono da elevare a modello?
Quello che viene definito «politicamente corretto» (da non confondersi con il burocratese che definisce «non udenti» i sordi o «non vedenti» i ciechi) è invece un percorso di civiltà, che ha via via esteso la sensibilità pubblica verso quelle porzioni di popolazione (spesso numericamente molto consistenti, come nel caso delle donne) che hanno subito per secoli discriminazioni, se non vere e proprie persecuzioni. E in genere il «politicamente corretto» nel linguaggio e nelle relazioni umane corrisponde a scelte anche personali e politiche di attenzione all’altro: non si tratta di semplice forma o ipocrisia. Chi si occupa di disabilità – da un punto di vista legislativo o professionale – non chiama «minorati» o «handicappati» le persone con cui ha a che fare. Chi pensa che le donne abbiano pari diritti degli uomini tende generalmente a non apostrofarle come inferiori o prostitute. Chi crede che gli ebrei non siano discriminabili evita di definirli «testa circoncisa». C’è chi rivendica uno stato primitivo dell’uomo e rifiuta i progressi culturali della nostra civiltà, sostenendo che la libertà di parola consenta di far male agli altri con la parola stessa. Ma c’è anche, per fortuna, chi sente la necessità di riaffermare che l’inciviltà non è un valore e che il rispetto per le persone e per la loro identità e speciale singolarità, che passa anche per un linguaggio che non le ferisca, è la base della convivenza.
«Chi parla male pensa male, e vive male», diceva Nanni Moretti. E legifera male, possiamo aggiungere.
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