Diritti

Il subdolo linciaggio di Silvia Aisha Romano

11 Maggio 2020

Bastano pochi fotogrammi e poche parole, a certi connazionali, per giudicare un essere umano e un anno e mezzo di dolore, sofferenza e angoscia. A meno che non si voglia pensare che, per la dottoressa Silvia Aisha Romano, passare 18 mesi nelle mani dei suoi rapitori, senza sapere se avrebbe mai più rivisto la sua famiglia, i suoi amici e la sua città (Milano) sia stato un divertimento. E quale persona con un minimo di onestà intellettuale (e umanità) potrebbe pensare una cosa del genere?

La tuttologia è una maledizione dell’Italia, e il caso Romano lo rende più che mai palese. In alcuni (troppi) dei commenti sul ritorno di Romano, su media e social media, si cristallizza tutta l’arretratezza italiana sulla questione femminile. E in particolare sul modo in cui le donne vengono presentate, osservate e interpretate nel discorso pubblico e nel dibattito collettivo. Romano ha rimesso piede in Italia da appena due giorni e già proliferano i commenti e le insinuazioni sul suo corpo, suoi suoi abiti, sulla presunta gravidanza, sulla sua “appartenenza” o meno alla “società occidentale”.

In poche parole, uno spettacolo disgustoso.

È soprattutto la sua conversione all’Islam a suscitare clamore e, in certi casi, indignazione. L’indignazione di chi adombra l’idea che la conversione di Romano sia un tradimento dei valori occidentali, del cattolicesimo. Quello stesso cattolicesimo, per la cronaca, che sempre meno italiani vivono autenticamente, come dimostrano le chiese vuote (tranne che a Natale e a Pasqua); ma che ora viene brandito per giudicare e condannare le scelte di una giovane donna.

Non giudicare, e non sarai giudicato, è un insegnamento del cristianesimo. Eppure qui orde di giudici improvvisati sono pronte a giudicare senza avere titolo morale, competenze e, per la cronaca, conoscenze in materia. Gli basta vedere una foto, gli basta intercettare qualche parola per esprimere già il loro verdetto da due soldi.

Si parla di Romano come se non si trattasse di una giovane donna rapita brutalmente un anno e mezzo fa da una banda di terroristi islamisti. Una persona che ha vissuto una situazione, uno stress, un’incertezza e un dolore impossibili da immaginare per chiunque non ci sia passato. Perché quella vissuta da Romano è il genere di esperienza traumatica che lascia tracce profonde, e che richiede tempo per essere assimilata e superata.

L’Italia, che in questi mesi di Covid-19 si è giustamente inorgoglita per i sacrifici e il coraggio del personale sanitario in prima linea, e per il forte senso di responsabilità con la quale gran parte delle cittadine e dei cittadini ha rispettato le dure norme del lockdown, è lo stesso paese che oggi vede tanti, troppi, anziché gioire per il ritorno di una compatriota, sproloquiare sui suoi abiti, sulle sue (scarnissime) dichiarazioni, sul suo corpo.

E un sospetto viene spontaneo: non è che alcuni di questi commentatori utilizzano il caso Romano, indubbiamente un buon risultato del sistema-Italia e di questo governo, per attaccare il governo stesso? Ma davvero lo scontro politico non deve conoscere alcun limite? Davvero le sofferenze di una persona meritano di essere trasformate in agone della battaglia tra partiti, fazioni e ideologie?

A che titolo giudicare Romano? Ma se proprio la si vuol giudicare, sarebbe opportuno farlo con cognizione di causa, solo quando tutti gli elementi della questione saranno molto più chiari. E per questo ci vuole ben più di un paio di giorni. Ma lo sappiamo bene: tuttologia e semplicismo vanno molto spesso di pari in passo.

Ora l’unica cosa importante è che Romano abbia il tempo per riprendersi con i mezzi e i tempi più giusti da questa terribile sofferenza. E, avendo la sottoscritta un po’ di familiarità con il metodo scientifico, consiglierei – prima di esternare su Romano – almeno qualche settimana di consultazione dell’imponente mole di letteratura scientifica esistente sui rapimenti e sulle loro conseguenze sulle vittime.

La reazione al ritorno di Romano mi conferma che pezzi importanti della società italiana sono ancora intrisi di una mentalità premoderna. E come sino a pochi giorni fa c’era chi si accaniva su runners, turisti e persino genitori a passeggio con bimbi diversamente abili (una versione 4.0 della “caccia all’untore”) per spiegare un fenomeno terribilmente complesso come l’emergenza Covid-19 in Italia, così oggi c’è chi tratta Romano un po’ come, nel XVII secolo, si accoglievano coloro che sfuggivano alle grinfie dei pirati barbareschi, e magari si erano convertiti all’Islam.

Del resto molti commenti sulla conversione di Romano sono espressione di due grandi temi irrisolti di questo paese. Il primo, di gran lunga più antico, è l’eguaglianza di genere, tema sul quale l’Italia è estremamente arretrata come dimostrano sia la quotidianità che le statistiche. L’altro, affermatosi prepotentemente come tema di dibattito pubblico dopo l’11 settembre, riguarda l’Islam e la superficialità con la quale questa religione è stata rappresentata dalla maggior parte dei media e da numerosi politici, commentatori, opinionisti vari.

In questo paese le donne, specialmente le giovani donne (ancora di più se appartenenti a minoranze religiose o etniche), vengono spesso trattate in un modo indegno di una società civile.

La natura di certi commenti su Romano risponde alla stessa mentalità per cui tante ventenni, trentenni, quarantenni e anche oltre, si sentono dare del “tu” a prescindere, anche quando sono più qualificate di chi le interpella. Una mentalità che le costringe a faticare molto più dei loro coetanei maschi per trovare un lavoro, conciliare vita professionale e figli, ottenere lo stesso salario (che infatti rimane spesso un miraggio, anche in settori insospettabili).

La stessa mentalità per cui sui giornali appaiono ancora titoli come “picchia la moglie senza motivo”, si deride una professionista perché non cura abbastanza il suo aspetto e si giudica “facile” la donna che veste in modo percepito come “provocante”. La stessa mentalità che ci tiene in cima alle classifiche europee sulla disoccupazione femminile, e che spinge taluni a interessarsi in modo quasi morboso alla conversione e all’abbigliamento di Romano anziché rallegrarsi per il suo ritorno e augurarle il meglio per sempre.

Ho l’impressione che anche il buon senso e la decenza più elementari vengano meno con una facilità allarmante quando si tratta di giudicare le donne. E il loro abbigliamento, il loro corpo, le loro azioni, il loro “posto” nella società.

Ecco perché l’unico consiglio che mi permetterei di dare a Romano è quello di stare lontana dai media e dai social media per molto tempo. Perché non è affatto detto che lei e la sua famiglia, dopo un rapido giro su Twitter o una frettolosa lettura di certi giornali, riuscirebbero a dimenticare quanto è stato scritto in questi giorni con la stessa facilità con cui i vari leoni da tastiera e certi tuttologi e commentatori si dimenticheranno del caso. E anche perché, sinceramente, di esperienze spiacevoli Silvia Aisha Romano ne ha già avute a sufficienza.

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