Diritti

Il populismo e la rivoluzione dell’89: cronaca di una magica estate

2 Maggio 2017

In un recente libro, di buonissima fattura, Marco Revelli ha analizzato il fenomeno del populismo. Egli ritiene che il populismo sia la manifestazione esterna di una malattia della democrazia, l’unico sistema affermatosi nella modernità sulle rovine delle utopie partecipative. Ogni qualvolta che una parte del popolo o un popolo tutto intero non si sente rappresentato, si sprigiona e si diffonde questa malattia. Può declinarsi come malattia infantile della democrazia, quando ancora la ristrettezza del suffragio e le barriere classiste tengono fuori dal gioco una parte della cittadinanza. Ma può delinearsi anche come malattia senile della democrazia, che si manifesta con l’estenuazione dei processi democratici ed il ritorno, in forza, di dinamiche oligarchiche nel cuore di paesi maturi, tanto potenti da rimettere ai margini o tradire il mandato di un popolo rimasto senza scettro. In entrambi i casi la sindrome populista è il prodotto di un deficit di rappresentanza (Marco Revelli Populismo 2.0 Einaudi editore passim da pagina 1 a 20).

Con la democrazia in crisi rientra fortemente in gioco, in modo pressante, il dibattito sui valori che essa rappresenta o abbia tentato di rappresentare nel corso della storia.

Vi è dunque una necessità, fortemente sentita, da chi tenta strenuamente di porre argine alla deriva populista, che oramai ha posto in frantumi i vecchi contenitori (partiti e classi sociali) e,come un fiume in piena, invoca nuovi modelli rappresentativi, paradigmi, che non ancora si pongono all’orizzonte.

Sono i nostalgici della normalità quelli che intendono riporre all’attenzione il manifesto riformista, qualunque sia la sua declinazione di destra o di sinistra: riprendono a coltivare vecchi ideali o rispolverano il contenuto di quei diritti naturali (libertà, uguaglianza fraternità), consacrati con la Rivoluzione francese del 1789.

Intendiamo ripercorrere un quadro storico, una cronaca non dell’intera rivoluzione, ma di quello che accade nella magica estate del luglio agosto del 1789, quando si ebbe la presa della Bastiglia, il 14 luglio ed il varo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, il 26 agosto dello stesso anno.

In realtà, i grandi storici ci ammoniscono, perché è necessario capire che cosa sia avvenuto nei mesi precedenti, in particolar modo nel periodo che va dall’aprile al giugno del 1789.

Infatti la Francia di quel tempo era un fiorire di attività culturali, filosofiche, politiche: si conta che la nobiltà illuminata e la borghesia progressista si ritrovava in oltre 700 caffè e club, disseminati in tutta Parigi. Qui si intrecciavano complotti, alleanze, si disegnavano utopie. Si ricorda, in modo particolare, il Palais Royal, animato dal duca Filippo D’Orleans.

Il Palais-Royal, situato sulla sponda settentrionale della Senna vicino al Louvre – avrebbe avuto un ruolo particolarmente determinante negli sviluppi successivi tanto che fu soprannominato il vestibolo della Rivoluzione. Circondato da portici gremiti di caffè, come il Cafè de Chartres, il Cafè de Conti e la Grotte Flamande, di librerie, ristoranti e locali d’intrattenimento che attraevano visitatori di tutti i tipi, era già uno dei luoghi cardine del dibattito politico. L’area del Palais, che era stata ereditata nel 1780 dal figlio del duca D’Orleans, era aperta a tutti. A partire dal 1788 il quartiere era rinomato per le animate discussioni che avvenivano nei caffè, per la prostituzione e vendita clandestina di testi proibiti e stampe oscene.

Il Palais Royal fu il luogo in cui la Francia intera poté assimilare il messaggio dei volantini rivoluzionari che trasformò tutti, persino i soldati in philosophes (Jonathan Israel- La Rivoluzione francese- Una storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre- Einaudi editore 2015- la biblioteca- pag. 38).

Fu in questo contesto che l’abate Sieyes pubblicò tra il novembre del 1788 ed il gennaio del 1789, prima della convocazione dell’assemblea degli Stati Generali, due eccezionali trattati che ebbero un impatto fortissimo: delinearono la cornice politica e fomentarono le coscienze prima della grande estate del 1789: Essai sur les privilèges (Saggio sui privilegi) ed il famosissimo Qu’ est-ce que le Tiers Etat? (Che cosa è il Terzo Stato?).

Il conte Mirabeau, dissoluto signore pieno di debiti, amante del lusso e della bella vita, ma dalla dialettica forbitissima e di eloquio affascinante, distinto pubblicista che non aveva mai smesso di attaccare l’assolutismo, le corti reali e l’ancien regime, fu un altro grande protagonista di quella indimenticabile estate del 1789. Egli caldeggiava il radicalismo più sfrenato per l’abbattimento dei privilegi della nobiltà e del clero: le sue tesi erano riportate su un giornale il “Courrier”, nel quale si sosteneva che  i diritti dell’Uomo erano sanciti dalla philosophie e non dalle leggi o dagli atti costitutivi di qualcuno, né da qualche religione e perciò erano “eternels, inaliènables, imprescriptibles” eterni, inalienabili, imprescrittibili.

Nei cahiers de doleances si esponevano le lamentele al sovrano: provenivano da tutte e tre gli Stati: infatti i francesi oltre a votare, per volere del Re, che aveva indetto la riunione ed elezione degli Stati Generali, erano chiamati ad esporre le loro lamentele: “sua Maestà desidera che fin dalle terre estreme del suo reame e dalle più umili abitazioni, a ciascuno sia garantito di poter far giungere i suoi voti ed i suoi reclami”, così recitava l’editto reale letto dai pulpiti delle chiese di Francia. In essi è consacrato lo spirito della Rivoluzione.

Il saggio sul Terzo Stato  dell’abate Sieyes si compendiava nei famosi tre interrogativi:

1) Che cosa è il Terzo stato? Tutto.

2) Che cosa è stato finora nell’ordinamento politico? Nulla.

3) Che cosa chiede? Divenir qualche cosa, una Nazione.

Alla riunione degli Stati Generali che il re Luigi XVI convocò dopo oltre un secolo (l’ultima si ebbe nel 1614) a Versailles il 5 maggio nel salone dell’Hotel des Menus Plaisirs, il Terzo Stato subì la grande umiliazione. “Il 2 maggio – ci racconta  Francois Furet nella sua Rivoluzione Franceseil re riceve separatamente i tre ordini; il giorno 4 si svolge il cerimoniale del corteo degli Stati, vera umiliazione per il Terzo: i deputati borghesi restano accuratamente tenuti in disparte, alla testa del corteo, il più lontano possibile dal re e giunti alla chiesa di San Luigi si sistemano come possono, mentre i posti della nobiltà del clero sono segnati. Il vescovo di Nancy, pronunciando il sermone presenta al re “gli omaggi del clero, i rispetti della nobiltà e le umilissime suppliche del Terzo Stato” (La Rivoluzione Francese- Francois Furet- Denis Richet- Storia Universale-Biblioteca del Corriere Della Sera- volume quindicesimo- pag. 72).

In modo più rimarcato, affinchè ne sia data una rappresentazione plastica della condizione d’inferiorità, così descrive Albert Soboul la condizione del Terzo Stato nella riunione degli Stati Generali: “il 2 Maggio  i deputati agli Stati Generali furono presentati al re; fin da quel momento la Corte dimostrò una precisa volontà di conservare le tradizionali distinzioni tra gli ordini. Il sovrano ricevette infatti i deputati del Clero nel suo gabinetto a porte chiuse, secondo l’abituale cerimoniale; ricevette poi, ma a porte aperte la nobiltà, mentre la delegazione del Terzo Stato gli fu presentata con un’informale sfilata nella sua camera da letto. I rappresentanti del Terzo avevano indossato per l’occasione un costume ufficiale nero, d’aspetto assai severo, con un mantello di seta e una cravatta di batista; la nobiltà s’era invece presentata in abito nero, veste e paramenti d’oro, mantello di seta, cravatta di pizzo, cappello a piume rialzato alla Enrico IV” (La Rivoluzione Francese- Albert Soboul- Grandi tascabili economici Newton- Edizione Giugno 1996 pagina 109).

Il Terzo Stato era il cuore della Francia costituito dalla grande borghesia, ma anche da nobili decaduti e preti che avevano abbandonato i rispettivi ordini.

La grande battaglia politica sarebbe stata quella di votare per testa e non per ordine. Infatti il voto pro-capite conferiva la maggioranza proprio al Terzo Stato, il più numeroso, quello per ordini ne decretava il completo isolamento: bastava, come sempre avveniva, l’alleanza fra gli altri due ordini, il clero e la nobiltà per difendere privilegi e prebende ed il Terzo era sempre in minoranza.

Il 6 maggio 1789 il Terzo Stato, come se si volesse lavare da un’umiliazione secolare, si dà un nuovo nome: i suoi rappresentanti si chiameranno d’ora in poi “Deputati dei Comuni”.

Il 10 giugno, su proposta di Sieyes, il Terzo Stato decide di uscire da una troppa lunga inerzia ed invita i deputati dei primi due ordini a riunirsi per procedere alla verifica globale dei poteri di tutti i rappresentanti della nazione: i non comparenti saranno considerati assenti.

L’appello comincia la sera del 12 giugno, ma il Terzo è solo; il 13 giugno gli si uniscono tre curati del Poitou; il 14 ed il 16 il movimento si allarga lentamente: 19 deputati del clero passano all’assemblea dei Comuni.

Terminata la verifica l’Assemblea affronta la grande, l’immensa questione del proprio nuovo battesimo: che cos’è? Che cosa vuole essere? Nonostante la prudenza di Mounier e di Mirabeau, Sieyes riprende la sua battaglia: nasce a larghissima maggioranza il 17 giugno, dopo un dibattito durato 3 giorni, l’Assemblea Nazionale. Il grande atto rivoluzionario è compiuto: il Terzo Stato ha distrutto la vecchia società politica e creato un nuovo potere indipendente dal Re.

Luigi XVI prevede una seduta degli Stati Generali per il 22 giugno, ma il salone dell’Hotel des Menus Plaisirs verrà chiuso.

Il 20 giugno, i deputati dell’Assemblea nazionale che non sono stati dunque avvertiti, trovano la porta sbarrata.

Ammucchiati sotto la pioggia, nella avenue de Paris si recano nella vicina sala della Pallacorda: illuminata da finestre altissime, senza sedili, con le pareti spoglie di qualsiasi ornamento, questo ampio stanzone nudo, tagliato a mezz’altezza da gallerie di legno, traboccanti di pubblico, fa da solenne cornice al celebre giuramento redatto da Target e letto da Bailly: “l’Assemblea nazionale, considerato che chiamata a stabilire la Costituzione del regno ad operare la rigenerazione dell’ordine pubblico e a mantenere i veri principi della monarchia, nulla può impedirle di continuare a deliberare, qualunque sia il luogo in cui sarà costretta a riunirsi . Decreta che tutti i membri prestino immediatamente giuramento di non separarsi mai e di riunirsi dovunque le circostanze lo richiederanno, finché la Costituzione del regno non sarà stabilita e poggiata su solide fondamenta e che, prestato il suddetto giuramento, tutti i membri e ciascuno in particolare confermino con la propria firma questa incrollabile risoluzione.

Contemporaneamente il re Luigi XVI, pur ammettendo un’eguaglianza fiscale, rifiuta le riforme del Terzo Stato, tanto è vero che il giovane marchese de Dreux-Breze, gran maestro delle cerimonie, si avvicina agli uomini del Terzo, immobili e silenziosi ed esclama: “Signori, conoscete le intenzioni del re”; risponde Sieyes: “Siete gli stessi di sempre”; rincalza Mirabeau: “Lasceremo i nostri posti solo con la forza delle baionette”.

L’Assemblea decide infatti di persistere nelle precedenti risoluzioni e decreta l’inviolabilità dei propri membri.

Il 24 giugno la maggioranza del clero si unisce a quella dell’Assemblea nazionale; il 25 comincia a disgregarsi anche la resistenza nobiliare: 47 deputati della nobiltà passano all’Assemblea nazionale.

Il 27 giugno Luigi XVI è costretto a sanzionare un fatto compiuto: invita il suo fedele clero e la sua nobiltà ad unirsi al Terzo Stato. A sera tutta Parigi si illumina. I deputati del Terzo hanno vinto la loro rivoluzione; il 7 luglio l’Assemblea nomina un comitato per la Costituzione. Nasce la rivoluzione borghese.

Le notizie da Versailles arrivano a Parigi, tra l’altro stremata da una grave crisi economica: ha fame e ha paura. Il re, in uno stato di grande confusione, ordina la mobilitazione di sei reggimenti; viene licenziato il ministro delle finanze Necker e un nuovo Gabinetto, con un manifesto controrivoluzionario, si insedia.

La destituzione di Necker è un gesto rischioso: a Parigi dalla fine di giugno si sente fortissimo il rincaro del pane e la disoccupazione è aumentata, in ragione della temporanea sovrappopolazione creata dai poveri cacciati dalla miseria delle campagne: sono esasperati i quartieri popolari del centro.

Il 14 luglio, simbolica coincidenza, il pane costerà più caro che in qualsiasi altro momento del secolo.

La riunione dei deputati del Terzo Stato ha ridestato nell’animo popolare l’ansiosa attesa della rivincita dei poveri e della felicità degli umiliati. In questa crisi generale la borghesia parigina si organizza; il popolo assale le barriere daziarie, cerca le armi. Allo spuntare del 14 la rivoluzione si dirige verso la Bastiglia.

La mirabile scelta dell’obiettivo fu istintiva ed improvvisa.

Nell’intimo delle coscienze umiliate balenò la sensazione che la tetra fortezza, i cui 8 grossi torrioni sbarravano l’ingresso, era un lampante simbolo del nemico. La leggendaria prigione, mostruoso anacronismo urbano, umano e politico, galvanizzò il coraggio popolare: fu abbattuta (Passim Furet -la Rivoluzione Francese- Georges Lefebvre La Rivoluzione Francese).

Il re il giorno prima, raccontano gli storici, si addormentò serenamente e nel suo diario scrisse la famosa parola: ”Nulla”. Fuori pioveva a scrosci: a tarda notte il re fu svegliato. Era il conte de La Rochefoucauld-Liancourt che raccontò al sovrano i drammatici avvenimenti parigini. “Ma si tratta di una rivolta” chiese il re. “No Sire è una rivoluzione”.

Ma se ne annuncia un’altra, quella dei contadini. Essa cova dalla primavera del 1789: chiare testimonianze si leggono nei cahiers de doleances. Georges Lefebvre parla della grande paura.

I contadini assalirono i castelli e le abbazie per bruciarne gli archivi e per imporre la rinuncia ai diritti signorili: volevano la riaffermazione del libero pascolo, l’abolizione della decima e di tutti i tributi che avevano arricchito la nobiltà ed il clero. Una forza irresistibile, la Grande paura, diede al movimento una spinta propulsiva irrefrenabile. Parigi tremava, perché temeva che la rivolta agraria potesse diffondersi a macchia d’olio. Si sospettò di briganti devastatori e di un’invasione straniera: correva voce di uno sbarco inglese a Brest.

Di villaggio in villaggio la falsa notizia si arricchisce di emozioni e leggende, dilagando nelle vallate, nelle pianure e lungo i sentieri.

Rispetto alla rivoluzione contadina si pone al fronte borghese il fondamentale interrogativo: se ristabilire o meno l’ordine con la forza e dunque rompere lo spirito che aveva portato alla presa della Bastiglia il 14 luglio.

Nella notte fra il 3 e il 4 agosto un centinaio di deputati al Caffè Amaury, club bretone, decisero di scavalcare le esitazioni dell’Assemblea Costituente e di aprirsi alle rivendicazioni dei contadini. Sarà il duca D’Aiguillon, uno dei più ricchi signori del regno, a dover propendere per la soppressione dei diritti feudali. Perciò la sera del 4 agosto l’Assemblea approvò con entusiasmo l’eguaglianza fiscale, il riscatto dei diritti signorili.

Prendeva piede la grande magia: ciascuno si affretta alla tribuna per essere il primo a dichiarare estinti i privilegi dell’ancien regime. L’11 agosto si approva un fondamentale decreto: l’Assemblea nazionale abolisce interamente il regime feudale; viene sanzionata la fine dei privilegi personali e il generale accesso a tutti gli impieghi; viene soppressa la decima ecclesiastica.

Il dibattitto all’Assemblea Nazionale riprende e si pone il fondamentale problema di votare separatamente dalla Costituzione una Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo che abbia valore universale.

Essa viene votata il 26 agosto e contiene 17 brevi articoli, ammirevoli per forma e densità intellettuale,non più dettati dalle cautele tattiche o dalle timidezze borghesi.

I diritti sono dichiarati naturali ed imprescrittibili, in omaggio al deismo dei filosofi e al naturalismo dei fisiocrati. Gli uomini nascono e vivono liberi e uguali.

I diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza, la resistenza all’oppressione. Si sancisce l’eguaglianza civile, fiscale, la libertà individuale, l’accessibilità per tutti a tutti gli impieghi, l’habeas corpus, la non retroattività delle leggi penali, la libertà di parola, di opinione di stampa, la separazione dei poteri.

L’individualismo borghese ha ormai la sua Magna Charta di diritto pubblico.

Per Immanuel Kant la storia è anche profetica: si registrano a volte avvenimenti straordinari che segnano il futuro dell’umanità: la Rivoluzione francese è il signum prognosticum, che garantirà progresso a tutte le genti: non a caso lo scritto in cui ne parla ha questo peculiare titolo: Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio.

Sarà Tocqueville a darci l’icastica definizione dei valori propugnati dai principi del 1789: “il tempo in cui fu concepita la rivoluzione e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo fu di giovanile entusiasmo, di fierezza,di passioni generose e sincere, di cui, ad onta di ogni errore, gli uomini avrebbero serbato eterna memoria e che per gran tempo ancora turberà i sogni di coloro che gli uomini vogliono asservire e corrompere” (Norberto Bobbio L’Eta’ dei diritti-Dieci saggi sui diritti dell’uomo pag 140 Einaudi Editore).

Il populismo non potrà mai scalfire gli ideali della magica rivoluzione, essenza di ogni democrazia.

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